Favole per Bambini

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Pollicino

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Moltissimo tempo fa, quando si filava ancora la lana, nelle campagne vivevano due poveri contadini, marito e moglie. Sebbene fossero molto poveri, desideravano moltissimo d'avere un figlio.
- Pensa, moglie mia - sospirava l'uomo - come la casa sarebbe più allegra se ci tenesse compagnia vicino al fuoco un bel bambino!
- Ahimè! Marito mio - rispose la moglie fermando il suo arcolaio - anche io ne sarei molto felice.
Anche se fosse molto piccolo, guarda, non più grande del mio pollice, l'accoglierei con gioia.
Qualche mese dopo, con loro grande felicità, nacque un figlio.
Era ben fatto ed aveva una bella voce, ma di taglia piccolissima, non più grande dell'unghia di suo padre.
Il ragazzo non divenne mai grande.
Aveva un'intelligenza viva, era anche molto abile, riusciva in tutto quello che si attingeva a fare.
I suoi genitori, anche se in un primo tempo si erano preoccupati, si erano presto adattati alla sua piccola statura e lo avevano soprannominato con affetto Pollicino.
Vegliavano su questo piccolo uomo che avevano tanto desiderato, affinché non gli mancasse nulla.
Un giorno suo padre, mentre si apprestava a partire per abbattere alcuni alberi, sospirò:
- Se avessi almeno qualcuno che mi aiutasse a condurre la carretta!
- Papà! - gridò Pollicino - Lasciatemi guidare la carretta da solo. Vi raggiungerò nella radura e voi intanto guadagnerete tempo.
- Ma tu sei piccolo! - esclamò il padre sorridendo - Come potrai guidare il cavallo e prendere le redini?
- Ho un'idea - gridò il piccolo uomo - la mamma attaccherò il cavallo, poi mi isserà fino all'altezza della testa ed io scivolerò all'interno del suo orecchio. Il cavallo mi conosce bene e non avrà certamente paura, così io lo guiderò al luogo dove avrai tagliato la legna.
Il padre diede infine il suo consenso, la madre attaccò il cavallo.
Il ragazzo lo guidò come un vero carrettiere, fermandosi saggiamente agli incroci.
Quando fu in vista della radura incrociò due stranieri che chiacchieravano. Poiché udirono una voce essi si voltarono.
- Hoo! Hoo! Là! Là! Stiamo per arrivare mio bravo Zeffiro - gridò in quel momento Pollicino ben nascosto nel suo strano nascondiglio.
- Sangue di Bacco! Sto sognando! - disse uno dei due - una carretta che se ne va da sola: si sente la voce del guidatore e non si vede nessuno.
- Seguiamola, non c'è dubbio che si tratta di qualche stregoneria.
Il pesante veicolo si fermò di colpo davanti alla catasta di legna.
Davanti agli occhi dei due curiosi il contadino s'avvicinò al cavallo e gli tolse dall'orecchio il minuscolo omino che, tutto vispo, venne a sedersi su un fuscello di paglia a qualche metro dai due uomini.
Nel vedere questo personaggio in miniatura così audace e pieno di risorse, i due uomini ne rimasero colpiti.
Alla fine uno dei due s'avvicinò al contadino e gli disse:
- Brav'uomo, vendeteci vostro figlio. Gli faremo guadagnare una fortuna facendolo vedere nelle fiere dei grandi villaggi.
- Vendere il mio caro figlioletto? Non se ne parla nemmeno. - rispose indignato il contadino.
Ma Pollicino, approfittando della distrazione dei due compari, occupati a contare i loro scudi, gli sussurrò:
- Papà, accetta il denaro di questi due furfanti che vogliono sfruttarmi, io scapperò prestissimo, te lo prometto.
Il brav'uomo, con il cuore un po' grosso, lo vendette quindi per due bei scudi d'oro.
Rapidamente saltò sulla falda del vestito di uno dei due compari, s'arrampicò sulla sua spalla e infine s'installò sul bordo del suo cappello.
Camminarono così tutta la giornata e allorquando arrivarono al bordo di un campo appena mietuto, Pollicino all'improvviso gridò:
- Lasciatemi scendere a terra, vedo laggiù un coniglio selvatico preso al laccio, con il quale potremo fare un buon pranzo. Ve lo mostrerò.-
Allettato e senza alcun sospetto, l'uomo lo posò in terra.
Agile come un'anguilla, Pollicino si infilò nel buco di un topo campagnolo gridando:
- Buona sera signori e buon viaggio, ma senza di me.-
Furiosi i due uomini se ne partirono imprecando. Pollicino decise di attendere l'alba al riparo di un guscio vuoto di lumaca.
Dormiva profondamente quando un brusio di voci lo svegliò.
Due ladri si erano fermati a due passi da lui.
Uno di loro diceva:
- Come potremo rubare a questo ricco prete?
- Vi dirò io come fare - gridò molto forte Pollicino - portatemi con voi e io vi aiuterò. Abbassate gli occhi, sono qui vicino.
- Come, sei tu, piccolo diavoletto, che pretendi d'aiutarci? - dissero i due ladroni scoppiando a ridere.
- Io scivolo con facilità tra le sbarre della camera del prete - spiegò Pollicino - poi, una volta entrato, vi passo tutto quello che volete.
- Tu non sei uno stupido - disse uno dei due uomini collocandolo sulla sua spalla - che la fortuna ci assista, ma affrettiamoci perché si sta alzando la luna.
Arrivati al presbiterio, Pollicino vi entrò e si mise a gridare:
- Volete tutti i luigi d'oro e i lingotti d'argento?-
Stupiti i ladri lo supplicarono immediatamente di parlare a voce bassa, perché un tal chiasso rischiava di svegliare il prete.
Ma Pollicino fece orecchie da mercante ai consigli dei due banditi e gridò a gran voce:
- Decidetevi perdiana! I quadri e l'argenteria vi interessano o no?-
La cuoca che aveva il sonno leggero, udendo quel beccano, scese dal letto, accese la candela alle braci del focolare e si precipitò in direzione dell'ufficio.
Quando entrò nella stanza la trovò vuota.
I ladri, spaventati, erano fuggiti da sotto la finestra, mentre Pollicino, tutto tranquillo, si era rifugiato in una mangiatoia del granaio vicino.
La brava donna, rassicurata, tornò a dormire.
Al mattino, all'alba, la serva incaricata di dar da mangiare alle bestie s'impossessò di una bracciata di fieno per nutrire le mucche. Quella che aveva il vitellino ad allattare si gettò avidamente sulla mangiatoia e, hop! Pollicino, svegliatosi, fu precipitato fino in fondo allo stomaco nauseabondo del ruminante che ingurgitava grosse quantità di fieno.
- Basta fieno, basta erba! Soffoco! - gridò Pollicino.
Presa da gran spavento nel sentire la mucca parlare, la povera serva cadde riversa chiamando il prete al soccorso.
- Miio braavo papa..drone, la la.. nos...tra mu..mu...mmucca paarla que..que..sta mamaa..ttina! - balbettò la brava donna.
- Vediamo, figlia mia, voi sognate! - gridò stupito il prete alzando la sottana nella stalla tutta sporca.
Ma la voce risuonò di nuovo. Il prete si fece subito il segno della croce. - E' senza dubbio una manovra del diavolo.
Cosparse abbondantemente d'acqua santa la stalla, la mucca e la serva.
Dopodiché (non si è mai troppo prudenti) decise di far abbattere l'animale perché continuava ostinatamente a gridare.
Effettivamente Pollicino aveva paura di morire soffocato.
La povera mucca fu dunque sacrificata e il suo stomaco fu gettato in un mucchio di detriti. Pollicino soffrì molto ad uscire da quel ventre maleodorante. Finalmente respirò il suo primo sbuffo d'aria fresca, sennonché un lupo affamato inghiotti lo stomaco della mucca ed il suo contenuto.
Ecco di nuovo il nostro sfortunato piccolo uomo in un nuovo nascondiglio poco confortevole ed inoltre tutto buio.
Egli quindi mormorò:
- Caro lupo, nell'ultima casa del villaggio c'è una dispensa ben fornita. Quando arriva la notte entra dentro dal tubo di scarico, potrai così riempirti la pancia a sazietà.
- Questo lungo digiuno - borbottò tra se il lupo - mi dà allucinazioni, infatti sento alcune voci... bah! Il consiglio non è poi così cattivo, seguiamolo.
Lo seguì così bene che quando volle andarsene il suo ventre troppo pieno gli impedì di passare attraverso il tubo.
Era rimasto in trappola.
Pollicino si mise subito a gridare, mettendo in subbuglio la casa:
- Caro papà, ammazzate questo lupo che mi tiene prigioniero nella sua pancia!-
Così avvenne e Pollicino ritrovò i suoi genitori felici di rivederlo.

di Jakob e Wilhelm Grimm

L'illustrazione è di Avian


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LA FIGLIA DEL SOLE

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Un re e una regina, dopo averlo tanto atteso, stavano per avere un bambino.
Il re chiamò gli astrologhi per sapere se sarebbe stato maschio o femmina e quale destino avrebbe avuto. Gli astrologhi guardarono il cielo e dissero che sarebbe nata una bimba, e che a venti anni avrebbe fatto innamorare il sole e avrebbe avuto da lui una figlia.
Il re e la regina ci rimasero male di questo marito che sarebbe stato sempre in cielo, e fecero costruire una torre con finestre tanto alte che il sole non potesse entrare fino in fondo e vi rinchiusero la bambina con la balia.
La balia aveva una figlia della stessa età di quella del re, le due bambine crebbero insieme nella torre.
Avevano quasi venti anni quando, parlando di ciò che poteva esserci fuori, nel mondo, ebbero il desiderio di affacciarsi alla finestra. Fecero una catasta di sedie, salirono fino alla finestra e guardarono fuori. Il sole vide la figlia del re, se ne innamorò e le mandò un raggio, e da quel momento la ragazza attese una figlia dal sole.
Quando la bambina nacque la balia, che temeva la collera del re, l'avvolse ben bene con fasce d'oro da regina e l'abbandonò in un campo di fave.
Di lì a poco la figlia del re compì vent'anni e il padre la fece uscire dalla torre pensando che il pericolo fosse passato e non poteva immaginare che in quel momento la figlia di sua figlia e del sole stava piangendo in un campo di fave.
Da quel campo passò un altro re che andava a caccia, sentì i vagiti e si impietosì di quella bella e piccola creatura abbandonata. La prese con sé e la portò al suo castello dove la fece crescere con suo figlio, un po’ più grande di lei, ma di poco.
I due , divenuti grandi, si innamorarono e il figlio del re voleva sposare la ragazza, ma il padre, che era contrario a questo matrimonio, con una trovatella, la confinò in una casa solitaria senza sapere che essa era in grado di fare cose meravigliose, e cercò per il figlio una sposa di sangue reale.
Si prepararono le nozze, e furono mandati degli ambasciatori a portare confetti a tutti, anche alla figlia del sole.
Gli ambasciatori bussarono, la figlia del sole aprì la porta, ma era senza testa:
- Oh! Scusate- disse - Mi pettinavo e ho dimenticato la testa sulla toeletta, vado a prenderla.
Tornò con la testa sul collo e sorrise:
- Cosa vi dò per regalo di nozze?-.
Portò gli ambasciatori in cucina e disse:- Forno, apriti; legna, va' nel forno; fuoco, accenditi; forno, quando sei caldo chiamami -.
Gli ambasciatori, con i capelli dritti sulla testa, rimasero senza parole.
Quando il forno gridò:- Sora padrona, sono caldo!-
la figlia del sole vi si gettò con tutto il corpo, vi si rivoltò dentro e quando ne uscì aveva in mano un bel pasticcio dorato, che mandò al re come regalo di nozze.
Quando gli ambasciatori tornarono al palazzo e raccontarono quello che era successo, la sposa, ingelosita, disse che anche lei avrebbe saputo fare la stessa cosa e, messa subito alla prova dal figlio del re, fu costretta a saltare dentro un forno rovente e in un attimo era già morta bruciata.
Dopo un po' di tempo, il figlio del re si lasciò convincere a prendere un'altra moglie e il giorno delle nozze gli ambasciatori tornarono dalla figlia del sole a portarle i confetti; bussarono e la figlia del sole usci fuori passando attraverso il muro.
Come aveva fatto la prima volta, volle preparare un dono di nozze; ordinò al forno di accendersi e all'olio di andare nella padella. Quando l'olio fu caldo e la chiamò, la figlia del sole vi tuffo le dentro le dita che si trasformarono in dieci bei pesci fritti che mandò al re.
Gli ambasciatori tornarono al palazzo e raccontarono quello che avevano veduto, e la sposa, ingelosita, disse che anche lei era in grado di fare la stessa cosa.
Il principe la prese in parola, fece preparare una padella d'olio bollente, la poveretta ci tuffò le dita e si scottò così forte che le venne male e morì.
Trovarono una terza sposa per il principe e gli ambasciatori tornarono dalla figlia del sole a darle i confetti e la trovarono in aria che scivolava lungo una tela di ragno.
Anche questa volta volle preparare un dono di nozze: si tagliò un orecchio e ne uscì una trina così bella che, quando la portarono a corte, tutti vollero sapere da dove fosse uscita.
Quando la sposa ebbe ascoltato il racconto degli ambasciatori scioccamente si vantò di aver guarnito tutti i suoi abiti con una trina che aveva fatto allo stesso modo e quando il principe le dette un coltello dicendole:
- Prova un po'!-
La scriteriata si taglò un orecchio e ne uscì tanto sangue che morì.
Il principe, che era sempre più innamorato della figlia del sole, si ammalò di malinconia e nessuno riusciva a guarirlo.
Chiamarono infine una vecchia maga che disse che sarebbe guarito solo se avesse mangiato una pappa fatta di un orzo che in un'ora fosse seminato, nascesse, fosse raccolto e cucinato.
Il re era disperato, ma, ricordandosi di quella ragazza che faceva cose tanto meravigliose, la mandò a chiamare.
La ragazza andò a corte, preparò la pappa e lei stessa volle darla al principe che stava a letto con gli occhi chiusi.
La pappa era così cattiva che il figlio del re la sputò e un po' fini in un occhio della ragazza.
La figlia del sole si adirò e cominciò a dire:- Come osi sputare in un occhio a me, figlia del sole, nipote di re?
Il re che era vicino le chiese se veramente fosse nipote di re e alla sua risposta affermativa acconsentì alle nozze.
Il principe guari, sposò la figlia del sole che da quel giorno non fece più cose strane.


Illustrazione di Marilena Maglio

di Italo Calvino


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La Regina delle Nevi

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C'era una volta uno stregone maligno, che aveva inventato uno specchio dai poteri diabolici: i paesaggi più belli diventano luoghi spaventosi, le persone più belle diventavano brutte.
Non solo: chi si specchiava diventava cattivo e perfido.
Gerda e Hans, due allegri scolari, erano vicini di casa e grandi amici. I loro terrazzini confinavano e così i due ragazzi si vedevano ad ogni ora del giorno.
Una domenica, Hans, mentre stava parlando con la piccola amica, sentì un bruscolo entrargli in un occhio.
Cercò di liberarsene, ma non vi riuscì e rimase di pessimo umore.
- Che hai Hans? - gli chiese Gerda. - Che ti succede?
- Proprio nulla che ti interessi - rispose sgarbatamente il ragazzo e Gerda si meravigliò esi addolorò nel sentirlo parlare così duramente.
Era successa una cosa orribile: Lo specchio diabolico era andato in mille frantumi che il vento aveva portato con sé.
Proprio uno di quei frantumi era entrato nell'occhio di Hans e da qui era sceso nel suo cuore che era diventato duro e freddo come la pietra.
Da allora il ragazzo non fu più lo stesso né a casa né a scuola: diventò cattivo, scontroso, maleducato e volgare.
L'inverno giunse presto quell'anno e tutto il paese era ricoperto di neve.
Un mattino, mentre si recava a scuola con la sua slitta, Hans vide affiancarsi alla sua, una slitta grande ed elegante tirata da due candidi cavalli.
- Come mi piacerebbe farmi trascinare a scuola! - pensò.
Come per incanto la grande slitta diminuì l'andatura e Hans riuscì ad attaccarvi la sua.
I cavalli ripresero allora a trottare a gran velocità: era divertente correre così di carriera. Ma ad una tratto la slitta lasciò la città e corse velocissima per le vie della campagna.
- Lasciatemi, lasciatemi! - gridò allora piangendo Hans ma non fu ascoltato.
A sera la slitta si arrestò, ne scese una bellissima signora, tutta bianca. Egli la riconobbe: era la Regina delle Nevi.
La signora lo baciò sulla fronte ed egli cadde addormentato con un gran gelo in cuore.
La dama bianca lo trasportò sulla sua carrozza e partì per il suo regno.
Quando Gerda, dopo molti giorni, si rese conto che Hans non sarebbe ritornato, decise di andare alla sua ricerca.
Se ne partì di nascosto da casa e camminò a lungo finché giunse ad un fiume.
Qui vide una barchetta: vi balzò sopra.
Si lasciò trascinare dalla corrente per chilometri e chilometri, quando fu stremata dalla fame e dalla stanchezza Gerda vide sulla riva del fiume una casetta, vi si fermò chiedendo ospitalità per una notte.
Fu accolta dalla gentile vecchietta che vi abitava.
L'anziana signora era una maga che da anni viveva sola, la compagnia di Gerda le piaceva e per impedirle di andarsene usò su di lei un pettine fatato che faceva perdere la memoria.
Ogni mattina appena alzata la pettinava e Gerda perdeva il ricordo del suo viaggio e del perché si trovasse lì. Passarono gli anni.
Un giorno la vecchietta si dimenticò di ripetere il suo rito e la bambina riprendendo coscienza di sè, fuggì di nascosto.
Dopo aver corso e camminato tanto, stanca si fermò a riposare ai piedi di un albero.
Era disperata e mentre rifletteva su cosa avrebbe potuto fare per trovare il suo amico, sentì sopra la sua testa due corvi parlare tra loro di un certo Hans, venuto da lontano e di umili origini che stava per sposare la principessa del luogo.
Gerda corse a palazzo, vi si intrufolò di nascosto, ma arrivata nella stanza reale conobbe i futuri sposi e si rese conto che il ragazzo di cui aveva sentito parlare dai corvi non era il suo Hans.
I due ragazzi impietositi dalla storia della bambina, decisero di aiutarla e le regalarono una carrozza e dei cavalli.
Gerda riprese il suo viaggio, purtroppo le brutte sorprese non erano finite: passando di notte in un bosco, fu aggredita da un gruppo di zingari, non aveva soldi con sé e il capo di questi disse di ucciderla.
Sua figlia, però, non volle :
- Tu non la ucciderai, la voglio per me!. -
Così la povera Gerda divenne la schiava della piccola zingarella.
La piccola zingara a poco a poco cominciò a volerle bene e volle sapere la sua storia.
- Tu vuoi ritrovare Hans? Ti aiuterò! Piccioni, piccioni miei, venite! - gridò.
Ed ecco uno stormo di piccioni giungere accanto a lei.
- Avete visto un bimbo con paltoncino azzurro che si chiama Hans?
- L'ha rapito la Regina delle Nevi.
- E come potrò giungere fino a lui? - Pianse Gerda disperata.
La sua piccola amica la prese per mano, l'accompagnò vicino ad una grossa renna e disse alla bestia:
- Accompagna Gerda dalla Regina delle Nevi e poi sarai libera!
Gerda abbracciò l'amica salì sulla groppa della renna che partì velocemente verso il paese dei ghiacci.
Dopo aver galoppato a lungo attraverso una terra desolata e gelida, la renna si fermò:
- Guarda, là c'è il palazzo della Regina delle Nevi. Va' ora, ti aspetterò per riportarti indietro. -
Non appena Gerda fu scesa dalla groppa della renna fu assalita da una miriade di fiocchi di neve che volevano impedirle di avanzare.
A stento riuscì a giungere al castello.
Nel palazzo il freddo era tale che la bimba non poteva quasi muoversi.
Vide ad un tratto, in una delle immense sale, Hans seduto sopra un piccolo trono.
- Hans! - gridò - Sono io Gerda!
Hans si svegliò, riconobbe Gerda e la abbracciò. Ma in quel mentre arrivò la regina delle nevi, che voleva rimpossessarsi di Hans. Ma Gerda le disse:
- Tu sei una creatura del ghiaccio, Hans non ti appartiene, lui è una creatura dei fiori, degli animali, della vita! -
La regina delle nevi vide il suo potere svanire...
Le sue lacrime scesero nel cuore di pietra dell'amico e sciolsero il frammento dello specchio diabolico.
Hans la prese per mano:
- Fuggiamo! - disse.
Giunsero trafelati accanto alla renna, le salirono in groppa e, con le mani unite, felici, ripresero la via del ritorno.
- Oh, cara Gerda, se non ci fossi stata tu, che ne sarebbe stato di me? Mi hai ridato la vita!
La vecchina fatata donò dei fiori. Infine giunsero nella città, dove ritrovarono le loro famiglie, i loro amici, i loro animali e i loro fiori.
Ma ormai non erano più dei bambini: erano grandi.
Ora non erano più solo amici: si sposarono poco tempo dopo e vissero felici e contenti, ricordando sempre gli amici che li avevano aiutati durante la loro grande avventura.


Hans Christian Andersen


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L'uomo di ferro

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C'era una volta una foresta maledetta nella quale nessuno osava entrare. Un giorno un cacciatore decise di entrare nella foresta con il suo cane che si diede subito da fare per far alzare qualche animale, ma dopo i primi salti si trovò impantanato in un acquitrino che l'arrestò nella sua corsa e un braccio nudo uscì dall'acqua per afferrarlo.
Il cacciatore aveva visto tutto, fece dietro front e ritornò con tre robusti giovanotti armati di secchi e fece svuotare loro l'acqua dello stagno. Sul fondo intravidero, lungo sdraiato, una specie di selvaggio enorme che aveva il corpo color ruggine e con capelli lunghi fino alle ginocchia che gli coprivano completamente il viso. Lo legarono con corde e lo portarono fino al castello, dove tutti lo guardarono con stupore.
Il re lo chiuse in una gabbia di ferro che lasciò in un cortile. Solo il figlio del re, che aveva otto anni, l'aveva in simpatia e gli offriva frutta e dolciumi.
Un giorno il selvaggio gli chiese di liberarlo. Il ragazzo eludendo la vigilanza delle guardie riuscì ad aprire la gabbia, poi, per paura di essere sgridato fuggì con il selvaggio. Quando si trovarono al riparo nel cuore della foresta si fermarono per riposarsi. Il giorno dopo, quando il ragazzo ebbe dormito sul letto di muschio che il selvaggio gli aveva preparato, lo condusse ad una sorgente.
- Vedi - gli disse - l'acqua di questa sorgente d'oro è chiara e trasparente come il cristallo; tu devi restare qui e vegliare sulla sua purezza. Nessuno deve toccarla e non deve caderci dentro niente. Io verrò questa sera a controllare che tu mi abbia obbedito.
Poiché il tempo non passava più, tentò di distrarsi guardando il suo volto nello specchio dell'acqua. Come si spinse più avanti per vedersi meglio, ecco che i suoi lunghi capelli, che gli cadevano fin sulle spalle, scivolarono e toccarono l'acqua. Si ritrasse dietro in fretta, ma ormai la sua capigliatura era già tutta dorata e brillante come il sole. Potete immaginarvi che paura ebbe il ragazzo. Pertanto, per non farsi accorgere dall'uomo, prese il suo fazzoletto e si coprì la testa come se fosse un berretto. Ma a che scopo? L'uomo, arrivando la sera sapeva già tutto e le sue prime parole furono:
- Togli il tuo fazzoletto.
Lo tolse e i suoi capelli caddero sulle spalle in riccioli scintillanti. Ebbe un bel scusarsi e dire che non l'aveva fatto apposta e giurare che non l'avrebbe fatto più. Non servì a nulla e L'uomo di ferro gli disse:
- Non hai superato la prova: è impossibile che mi occupi più a lungo di te. Davanti a te c'è il mondo vasto e tu apprenderai che cosa è la povertà, ma poiché io ti voglio bene e tu, in fondo, non sei un cattivo tipo, ma sei di buon cuore, ti permetterò una cosa: se sei in pericolo, va nella foresta e chiamami: "Giovanni di ferro". Mi vedrai subito e io ti aiuterò. Il mio potere è grande, molto più grande di quello che tu non creda e per quanto riguarda oro e argento, io ne ho a profusione.
Il principino dovette allora andarsene lontano dalla foresta e camminò, camminò per molti giorni, seguendo le strade quando c'erano e andò dritto davanti a se quando non c'erano.
Arrivò finalmente ad una città dove cercò lavoro, ma non ne trovò, perché non sapeva far niente e non aveva imparato nulla che gli potesse servire. Disperato andò alla reggia per chiedere protezione. Non seppero cosa fargli fare, ma piacque a quelli della corte e gli dissero di restare.
Un giorno che era in giardino la principessa gli disse di cogliere i fiori più belli e più rari per lei. Il ragazzo li colse e corse nella camera della principessa.
- Togli il tuo cappello - gli disse la principessa - non devi tenere la testa coperta in mia presenza.
- Non posso - le rispose - ho le croste in testa.
La principessa gli prese il berretto e glielo levò, liberando i suoi capelli d'oro che si sciolsero sulle spalle, meravigliosi da vedere. Tentò di lanciarsi verso la porta per scappare, ma la principessa lo trattenne per un braccio e gli diede una manciata di ducati prima di lasciarlo andare. Se ne andò con questo oro che per lui non aveva nessun valore e lo regalò al giardiniere dicendogli:
- E' per i tuoi ragazzi, si potranno divertire.
Il terzo giorno la principessa lo chiamò di nuovo, chiedendogli un mazzo di fiori di campo e quando entrò nella camera cercò ancora di strappargli il berretto dalla testa, ma questa volta lo trattenne con tutte e due le mani e glielo impedì.
Purtroppo, dopo poco tempo, scoppiò la guerra in tutto il regno. Il re mobilitò tutto il suo popolo, chiedendosi se avresse potuto resistere al nemico che era numeroso e potente. Si sentì allora il giovane aiuto giardiniere che diceva:
- Ora sono grande e anche io voglio andare a fare la guerra. Chiedo soltanto che mi sia dato un cavallo.
Corse alla scuderia, prese un cavallo, gli salì in groppa e si diresse verso la foresta. Arrivato ai margini si mise a chiamare:
- Giovanni di ferro! Giovanni di ferro!
Che cosa vuoi da me? - gli chiese l'Uomo di ferro, apparendogli subito davanti.
- Vorrei un forte cavallo da battaglia - gli disse il giovane principe - perché voglio fare la guerra.
- L'avrai e ancora migliore di quello che ti aspetti. - disse l'Uomo di ferro.
Ritornò nella foresta, da dove poco dopo uscì seguito da un palafreniere che conduceva un cavallo focoso che nitriva e che faceva fatica a trattenere. Dietro veniva anche uno squadrone di guerrieri on corazze di ferro e le cui sciabole fiammeggiavano al sole. Il giovane principe si precipitò sul nemico e lo mise in fuga.
Al ritorno del re sua figlia gli corse incontro per congratularsi della sua vittoria.
- Non sono per niente vittorioso - disse al re - perché chi ha vinto la battaglia è un cavaliere misterioso che è venuto in mio soccorso con le sue truppe.
Ma il re disse a sua figlia che avrebbe dato una festa di tre giorni.
- Faremo annunciare che tu lancerai una mela d'oro ed è facile che venga anche lo sconosciuto.
Quando furono proclamati i giorni di festa, il giovane principe andò nella foresta e chiamò Giovanni di ferro e gli chiese aiuto. Il primo giorno arrivò al gran galoppo vestito di bianco, prese la mela d'oro e scomparve a tutta velocità. Il secondo giorno, con una armatura nera, prese la mela che la principessa gli aveva lanciato e di nuovo scomparve. Il terzo giorno, vestito di un'armatura d'oro prese ancora la mela d'oro, ma mentre se la portava via al gran galoppo perse il suo elmo e si videro brillare i suoi capelli biondi.
- Chi ha compiuto simili imprese non può che essere un principe - disse il re - dimmi il nome di tuo padre.
- Mio padre è un monarca molto potente ed io posseggo oro in abbondanza.
- Riconosco che ho un debito di riconoscenza verso di te. Sposerai mia figlia.
Mentre erano tutti a tavola, le porte si spalancarono ed entrò un maestoso monarca con il suo numeroso seguito. Questo re s'avvicinò al giovane principe, l'abbraccio e gli disse:
- Io sono l'Uomo di ferro, il re Giovanni, sono stato trasformato in un uomo selvaggio da un incantesimo dal quale tu mi hai liberato. Per dimostrarti la mia riconoscenza, tutti i tesori che possiedo sono ora di tua proprietà, accettali come regalo di nozze ed augurio di felicità.

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di Jakob e Wilhelm Grimm


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Il Gigante egoista

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Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante.
Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
-Quanto siamo felici qui!- si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni.
Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino. -Che fate voi qui?- esclamò con voce burbera, e i bambini scapparono.
-Il mio giardino è solo mio! -disse il gigante- lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro. Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso:
GLI INTRUSI SARANNO PUNITI
Era una gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
-Com'eravamo felici!- dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini.


Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno.
Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire.
Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
-La primavera ha dimenticato questo giardino -esclamarono- perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi.
Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
-E' un posto delizioso -disse- dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino.
Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
-Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire -disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco:
-Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante.
Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo.
La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
-Credo che finalmente la primavera sia venuta- disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi.
Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi,felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline.
Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena. Solo in un angolo regnava ancora l'inverno.
Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato.
Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
-Arrampicati piccolo- disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino.
A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
-Come sono stato egoista!- disse.-Ora so perché la primavera non voleva venire.
Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini. -
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto.
Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera.
-Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.
A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
-Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: -Il bambino che io ho messo sull'albero?-
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
-Non lo sappiamo -risposero i bambini- se n'è andato.
-Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire- disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste.
Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più.
Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
-Quanto mi piacerebbe vederlo-diceva sovente.


Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare;
sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
-Ho molti bei fiori- diceva- ma i bambini sono i fiori più belli.
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva,guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.
Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente.
Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato. Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino.
Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
-Chi ha osato ferirti?- perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
-Chi ha osato ferirti?- esclamò il gigante- dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
-No- rispose il bambino- queste sono soltanto le ferite dell'amore.
-Chi sei?- chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino.
Il bambino gli sorrise e disse:
-Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.

Oscar Wilde




illustrazione di Mariarita Brunazzi degli amici del forum di pinu


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Il librone degli incantesimi

grz5unO

C’era una volta un mago che era molto abile nel fare gli incantesimi. Da molti anni ormai abitava in una capanna in mezzo al bosco ed era molto infelice perché, sentendosi ormai vecchio e vicino a morire, non sapeva a chi trasmettere l’arte della sua magia.
Un giorno vide, per caso, due bambini che giocavano in un prato: erano un fratellino e una sorellina, piccoli, vispi e belli. “Ecco i bambini che fanno al caso mio! Li prenderò e insegnerò loro l’arte della stregoneria”, pensò subito il mago. E, fabbricata una rete di capelli, li catturò e li portò nella sua capanna.
I piccoli, spaventatissimi, avrebbero voluto fuggire, ma il mago li sorvegliava molto attentamente e non si allontanava quasi mai da casa; soltanto qualche volta si divertiva ad andare a pescare. Un giorno che il mago era andato al fiume a pescare, la sorellina buttò le braccia al collo del fratello e piangendo disse:
- Il mago se ne andato a pescare; fuggiamo prima che torni!
Ma il fratellino, che era più saggio, le rispose:
- Non hai sentito che terribili minacce ci ha fatto l’altro giorno prima di uscire? Eppoi quel mago è così sapiente che, con le sue magie, ci ritroverebbe subito! No, no! Aspettiamo un po’: per ora non possiamo proprio far nulla!
Passò qualche giorno e il mago di nuovo a pescare e i bambini rimasero soli nella capanna. A un tratto il fratellino guardò in alto e vide sullo scaffale un grosso librone nero.
- E’ certo il Librone degli incantesimi – disse il fratellino.
E, appena lo ebbe preso in mano, continuò:
- Guarda qui! Ci sono scritti tutti gli incantesimi che servono al mago per le sue stregonerie…ho deciso – disse dopo un po’ alla sorellina che lo guardava meravigliata – ogni volta che il mago andrà a pescare, io mi metterò in un angolo e cercherò di imparare qualche formula magica. Così, quando ne avrò imparate molte, forse troveremo il modo di scappare.
Il bambino per una settimana intera, studiò il Librone degli incantesimi e, poiché aveva buona memoria, imparò molti segreti della magia. Al mattino del settimo giorno, quando, come al solito, il mago se ne andò a pescare, il fratellino disse:
- E’ arrivato il momento giusto! Grazie al cielo ho imparato alcuni incantesimi che potranno esserci utili in caso di pericolo.
E presisi per mano, uscirono dalla capanna e scapparono lungo il sentiero del bosco. Il mago intanto, seduto sulla sponda del fiume, si affaticava per nulla: i pesciolini si avvicinavano all’esca, la mangiavano con delicatezza, ma quando il mago dava uno strappo alla lenza, scappavano da tutte le parti e nessuno rimaneva attaccato all’amo! Arrivò la sera e il mago tornò a casa tutto infreddolito e di cattivo umore. Appena entrato nella capanna, si guardò attorno, ma non vide i bambini. Scrutò in tutti gli angoli, cercò sotto la tavola e sotto il letto, ma erano proprio spariti!
- Me la pagheranno cara! – urlò più che mai infuriato. - Olà venga a me la mazza magica!
Subito la mazza magica gli saltò fra le mani e gli indicò la direzione che i bambini avevano preso. Il mago si mise a correre; oramai stava per raggiungerli i piccoli, quando il fratellino disperato provò a ripetere una formula magica:
- Libro, Librone, per il sangue del drago, per la barba del mago, trasformami all’istante in un bel lago.
Immediatamente il fratellino fu trasformato in un lago azzurro, e la sorellina in un pesciolino che guizzava allegramente nell’acqua. Giunto sulla riva del lago, il mago lo guardò con sospetto. Non era mago per nulla, e subito immaginò che cosa era successo.
- Voi volete sfuggirmi – brontolò – ma vi acchiappo lo stesso.
E in tutta fretta ritornò a casa per provvedersi di canne e reti e pescare così il pesciolino. Non appena si fu allontanato, i bambini ripresero le loro sembianze. Cercarono un cespuglio folto, vi si nascosero sotto e dormirono fino all’alba. Al mattino ripresero il viaggio camminando per tutta la giornata. Intanto il mago, munito di reti e di lenze, era giunto nel posto dove aveva veduto il lago, ma, con sua grande sorpresa, non lo trovò più. C’era soltanto un prato acquitrinoso dove saltellavano numerosi ranocchi. Tutto infuriato gettò via reti e canne, poi, interrogata la mazza magica e avuta da lei la direzione, riprese l’inseguimento. Verso sera i ragazzi udirono il rimbombo dei suoi passi.
- Siamo perduti! – singhiozzo la sorellina terrorizzata voltandosi indietro.
Ma il fratellino la rincuorò di nuovo:
- Non piangere. Conosco un’altra formula magica e spero che funzioni anche questa volta.
Tracciò un segno nell’aria e disse:
- Libro, Librone, a scorno dello stregone che viene in tutta fretta, mutami in una linda cappelletta.
Subito diventò una cappelletta bianca, di quelle che si vedono spesso lungo le strade di campagna, e la bambina divenne un bellissimo angelo dipinto nella nicchia. Quando il mago arrivò, incominciò a imprecare schiumando di rabbia. Ma come catturare un angelo dipinto? E come distruggere la cappelletta, visto che da sempre gli stregoni hanno paura delle immagini sacre? Inoltre l’angelo teneva una mano alzata in un atteggiamento dolcissimo, ma che a lui sembrava soltanto minaccioso. Egli fece tre o quattro volte il giro della cappelletta e concluse che non gli restava altro da fare che incendiarla.
- Non posso ridurvi in un mucchio di calcinacci – imprecò – ma vi ridurrò in un mucchio di cenere!
Detto fatto incominciò a raccogliere nei dintorni rami ed erba secca e con quelli circondò la cappelletta; ma quando fu per appiccarvi il fuoco si accorse che non aveva fiammiferi. Non gli restava che tornare a casa a prenderli, e subiti si incamminò sbuffando e borbottando.
Non appena fu lontano, il fratellino e la sorellina ripresero il loro solito aspetto e, poiché erano molto stanchi, cercarono un angolo ben riparato e dormirono saporitamente fino all’alba.
Quando il mago, portando i fiammiferi e una grossa fascina, giunse sul luogo dove c’era la cappelletta, trovò soltanto un grosso macigno. Lo stregone furibondo consultò la mazza magica e riprese l’inseguimento finché, verso sera, fu di nuovo alle spalle dei ragazzi.
Il fratellino, appena udì i passi pesanti del mago, tracciò un segno e disse:
- Libro, Librone, per il nido che sta sulla grondaia, mi piacerebbe diventare un’aia tutta piena di grano. E lo stregone, tienilo lontano!
Subito divenne una grande aia su cui troneggiava un grosso mucchio di grano e la bambina divenne un piccolo chicco mescolato a tutti gli altri. Quando lo stregone arrivò urlò di rabbia. Era stato giocato un’altra volta! Poi a poco a poco si calmò e incominciò a riflettere. “Questa volta, invece di arrabbiarmi tanto, farei bene a cercare un rimedio infallibile”, pensò. Infine i suoi occhi mandarono un lampo di trionfo:
- Ho trovato! – esclamò.
Pronunciò alcune parole magiche, e subito si trasformò in un gallo nero, che veniva avanti di gran corsa protendendo il becco in cerca del chicco di frumento. Grazie ai suoi poteri magici l’aveva già avvistato e stava per beccarselo quando il fratellino pronunciò mentalmente l’ultima formula magica di cui si ricordava:
- Gallo nero, gallo nero, non avere troppa fretta! Lo sai già quel che ti aspetta, con la volta e il levriero!
Subito a una estremità dell’aia apparve un grosso levriero che, mettendo in mostra due file di denti aguzzi, incominciò a correre verso il gallo. Non appena lo vide, il gallo, tutto spaventato, si diede alla fuga nella direzione opposta, ma dall’altra parte ecco apparire una volpe dal pelo rosso che, con gli occhi infiammati e la bocca aperta, si avventò su lui.
Il gallo non sapeva più da che parte scappare; svolazzava di qua e di là perdendo le penne, e non aveva più in mente né il chicco di grano, né, cosa peggiore, le formule magiche che avrebbero potuto salvarlo.
Fu la volpe ad avere la meglio balzata sul gallo ne fece un sol boccone, leccandosi poi le labbra con molto gusto.
I due bambini ripresero il loro aspetto consueto e da capo si incamminarono verso casa, questa volta allegramente, perché non avevano da temere più nulla. I genitori, che li avevano pianti per morti, li accolsero con gioia e grandi feste. Da quel giorno tutti insieme vissero felici e contenti e del cattivo stregone nessuno udì più parlare.

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di Ludwig Bechstein


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L'Usignolo dell'Imperatore

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C'era una volta e una volta non c'era...l'imperatore della Cina da un po' di tempo si annoiava.
Conosceva a menadito tutti i saloni del suo palazzo di porcellana, tutti i fiori che sbocciavano nei suoi giardini, tutti i cavalli che scalpitavano nelle sue scuderie. Un giorno, per caso, leggendo un libro straniero, scoprì che c'era qualcosa, nel suo regno, che non conosceva: un usignolo dalla voce dolcissima, nascosto nel folto di un bosco non lontano dalla reggia, il cui canto, si diceva, era la cosa più bella del mondo.
L'imperatore andò in collera. Come! Nel suo impero viveva una simile meraviglia e nessuno gliene aveva mai parlato! Possibile? Fece subito chiamare le guardie di palazzo.
"Cercate l'usignolo dalla voce d'oro che vive nel bosco vicino alla reggia e guai a voi se non lo trovate: finirete tutti in prigione! Avete tempo fino a stasera. Al tramonto l'usignolo dovrà essere qui e canterà per me".
Le guardie partirono, frugarono ovunque, ma invano.
Allora tornarono a palazzo e cominciarono a chiedere a tutti notizie del misterioso usignolo. Finalmente, il capo delle guardie ebbe la fortuna di imbattersi in una servetta che sapeva qualcosa.
"Certo che conosco l'usignolo! Ogni sera quando ho finito il servizio nelle cucine reali, vado a casa per portare qualche avanzo alla mia mamma e, attraverso il bosco, sento sempre l'usignolo cantare!"
" Ha una voce davvero tanto bella!" chiese il capo delle guardie.
" Tanto bella che, quando la sento, mi viene da piangere".
Il capo delle guardie le promise un posto di capo-cuoca se lo avesse guidato là dove l'usignolo aveva il nido. La servetta accettò. Poco dopo i due erano davanti ad un grande albero frondoso. Un trillo argentino risuonò nell'aria.
"Ecco l'usignolo, là, su quel ramo! " esclamò la servetta, indicando il minuscolo uccellino grigio.
Il capo delle guardie era piuttosto deluso: " E' piccino" disse l'uomo"ma canta bene"
Poi gentilmente si rivolse all'usignolo: "Uccellino, l'imperatore vuole che tu canti per lui al palazzo reale."
"Il mio posto è qui nel bosco, in libertà" rispose l'usignolo, " ma se l'imperatore me lo ordina, verrò a cantare con lui".
Si appollaiò sulla spalla del capo delle guardie e si lasciò condurre al galoppo fino alla reggia.
Poco dopo, davanti alla corte al gran completo, l'usignolo dava inizio al concerto. E cantò così bene che l'imperatore piangeva di gioia.
"Caro uccellino" disse, quando l'usignolo ebbe finito di cantare, "devi restare sempre con me. Ti tratterò con tutti i riguardi, farò costruire per te un trespolo d'oro, vivrai nella mia camera".
L'usignolo chinò tristemente il capino: "I tuoi desideri sono ordini, maestà."
Perchè l'usignolo non si annoiasse, sempre chiuso nel palazzo, l'imperatore gli permetteva di uscire due volte al giorno, ma accompagnato da dodici servitori che lo tenevano legato per la zampina con dodici cordicelle di seta. Non erano passeggiate divertenti, ma l'usignolo si accontentava.
Passarono i mesi. Un giorno, l'ambasciatore di un lontano paese portò in dono all'imperatore una scatola di legno smaltato. Dentro c'era un meraviglioso usignolo meccanico, tutto tempestato d'oro e di pietre preziose. Sotto le piume di madreperla c'era una chiavetta: bastava girarla e l'uccellino cominciava a cantare una bella melodia, la stessa che gorgheggiava l'usignolo vero. L'imperatore gradì molto il dono.
"I due usignoli canteranno insieme davanti alla corte" disse.
Purtroppo, il concerto non andò molto bene. L'usignolo vero cantava come gli dettava il cuore, quello meccanico ripeteva le stesse note senza mai cambiare.
L'imperatore si entusiasmò tanto di quella precisione da ordinare che l'usignolo vero tacesse per far cantare, da solo, quello finto.
Gira e rigira la chiavetta, il giocattolo cantò fino a che l'imperatore non volle sentire di nuovo l'usignolo del bosco. Ma l'usignolo era introvabile. Aveva approfittato della distrazione dei cortigiani per tornare, libero ma triste, nel suo nido tra gli alberi.
I cortigiani dissero che era una bestia ingrata e pregarono l'imperatore di far cantare ancora il docile usignolo meccanico. Il giorno seguente anche il popolo poté sentirlo. Molti si entusiasmarono, ma chi conosceva la voce dell'usignolo vero affermò che non c'era confronto tra i due, che le canzoni dell'uccellino dei boschi nascevano dal sentimento, quelle dell'altro da una molla. E la differenza si sentiva, eccome!
Il piccolo usignolo, nascosto tra i rami degli alberi, per qualche giorno non cantò. Poi, riprese a gorgheggiare; se non c'era più l'imperatore ad ascoltarlo, poteva sempre rallegrare contadini e boscaioli.
Intanto l'imperatore aveva dimenticato il suo piccolo amico, preso com'era dall'usignolo meccanico. Lo teneva su un cuscino di seta, lo caricava di continuo. Un giorno, ahimè, mentre l'usignolo cantava la sua solita canzone, si udì un cigolio e poi uno schianto: una delle molle del delicato meccanismo si era rotta. Il più bravo orologiaio della capitale, chiamato in gran fretta, smontò l'usignolo, cambiò la molla rotta, poi scosse la testa:
"Maestà, ho fatto del mio meglio, ma ormai il meccanismo è consunto. Se volete che l'usignolo duri ancora, fatelo cantare solo di tanto in tanto."
" Una volta l'anno". promise l'imperatore.
"Si, Maestà, una volta l'anno penso che vada bene". assicurò l'orologiaio.
Trascorsero cinque anni, poi, un brutto giorno, l'imperatore si ammalò tanto gravemente da far temere per la sua vita. Nessun medico riuscì a trovare un rimedio e allora i vili cortigiani, convinti che per il loro signore non ci fosse più niente da fare, uno ad uno lo abbandonarono alla sua sorte.
Una sera, mentre l'imperatore giaceva nel suo letto, ecco giungere la Morte con una spada in pugno:
"Devi venire con me, Maestà: è arrivata la tua ultima ora."
" Così presto? " sussurrò l'imperatore. "Mi restano ancora tante cose da fare! Pazienza...potrei almeno ascoltare un po' di musica?"
" E sia" concesse la Morte.
L'usignolo meccanico era adagiato sul cuscino di seta accanto al letto, ma non abbastanza vicino perchè l'imperatore riuscisse a prenderlo ed a caricare la molla. Il bel giocattolo restava muto, mentre l'imperatore sentiva le forze abbandonarlo sempre più. D'improvviso, dal giardino si alzò un canto dolcissimo, inconfondibile. Era l'usignolo vero. Aveva saputo della malattia del suo signore e, dimenticando i torti subiti, veniva a consolarlo con le sue melodie. Trilli, gorgheggi, note limpide come l'acqua di fonte sgorgavano dalla minuscola gola dell'usignolo e tutto sembrava più bello: la luce del giorno, la trasparenza del cielo, i colori dei fiori. L'imperatore si alzò a fatica dal letto e si affacciò alla finestra, la Morte lo seguì, come stregata. L'imperatore ascoltava e si sentiva rinascere; la Morte ascoltava e provava nostalgia del suo buio regno. Quando l'usignolo tacque, la nera signora era scomparsa silenziosamente nel nulla.
L'imperatore tornò a letto e cadde in un sonno profondo, quando si svegliò era perfettamente guarito. Accarezzò teneramente il piccolo usignolo che si era appollaiato sulla sua mano e gli sorrise.
"Usignolo mio, sono stato un ingrato, perdonami. Che cosa posso fare per dimostrarti la mia infinita riconoscenza?"
"Sono felice della tua guarigione e questo mi basta", rispose l'usignolo. "Una cosa sola vorrei: non essere costretto a tornare qui palazzo, prigioniero, ma vivere nel bosco e venire a trovarti ogni volta che lo desideri, mio signore. Canterò per te, ti racconterò tutto ciò che accade nel tuo regno in modo che tu possa governare sempre meglio. "
"Sarà fatto" sussurrò, commosso l'imperatore.
Con un trillo gioioso l'usignolo volò via; ma tornò ogni giorno, fedele alla promessa ed ogni giorno sparse ovunque gioia e saggezza intorno a sè.

MNEYHiG

di Hans Christian Andersen



Il pesciolino d'oro

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Sul mare-oceano, sull'isola di Bujan, c'era una volta una piccola casetta, un' izba decrepita. In questa izba vivevano un vecchio con la sua vecchietta. Vivevano in grande povertà: il vecchio fabbricava le reti e andava al mare per prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il vitto quotidiano.
Una volta, chissà come, il vecchio gettò la sua rete, cominciò a tirare e si accorse che era molto pesante, come mai gli era capitato.
Tira e tira, riuscì a tirar fuori la rete. Guardò: la rete era vuota; c’era in tutto un pesciolino, ma non un semplice pesciolino: era un pesciolino tutto d’oro.
Il pesciolino pregò il vecchio con voce umana: “Non prendermi, vecchietto! E’ meglio se mi lasci andare nel mare azzurro; io ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”.
Il vecchio pensò e ripensò, poi disse: « Che bisogno ho di te? Va’ pure a passeggio nel tuo mare!».
Gettò il pesciolino d’oro nel mare e tornò a casa.
La vecchia gli chiese: “ Hai preso molti pesci, vecchio?”
“In tutto ho preso solo un pesciolino d’oro, ma l'ho ributtato in mare. Mi pregò con insistenza. Lasciami andare, mi disse, nell’azzurro mare ed io ti ricompenserò, farò tutto quello che vorrai! Ho avuto compassione del pesce, non ho voluto da lui un riscatto ma l’ho lasciato libero a sua volontà”
“ Vecchio demonio! Ti era capitata tra le mani una vera fortuna e tu non hai saputo prenderla.”
La vecchia si incattivì, insultò il vecchio da mattina a sera, non lo lasciò in pace:
“Dovevi chiedergli almeno un po’ di pane. Qui abbiamo solo delle croste secche: che mangerai?”.
Il vecchio non si trattenne, andò dal pesciolino d'oro per chiedergli del pane.
Arrivò alla riva, e gridò con voce forte:
“Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Il pesciolino nuotò a riva: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?” .
“La vecchia si è arrabbiata, mi ha mandato a chiedere del pane.”
“Torna a casa: ci sarà del pane fin che ne vuoi”.
Il vecchio tornò a casa: “E allora, vecchia, c'e il pane?”.
“Di pane ce n'e finchè vuoi. Ma ecco il guaio. Il mastello si è rotto, e non so dove lavare la biancheria. Va' dal pesciolino e chiedigli un nuovo mastello.”
Il vecchio andò al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Il pesciolino arrivò: “Che vuoi vecchio?” .
“La vecchia mi ha mandato per chiedere un nuovo mastello.”
“Bene, avrai il mastello”.
Il vecchio tornò a casa, stava ancora sulla porta, che la vecchia di nuovo si gettò contro di lui, lo investì gridando “Va dal pesce d'oro, chiedigli di costruirci una nuova izba, non si può più vivere nella nostra, appena la guardi va in pezzi!”
E il vecchio tornò sul mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me!”.
Il pesciolino arrivò nuotando, si mise con la testa verso di lui e la coda in mare. “Che cosa vuoi, vecchio?”.
“Costruisci per noi una nuova izba; la vecchia si lamenta e grida, non mi lascia in pace; non voglio, dice, vivere più in questa izba vecchia, appena la guardi, va in pezzi!”
“Non rattristarti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
Tornò il vecchio. Nel suo cortile c’è una izba nuova, di legno di quercia, tutta con trafori e ornamenti.
Gli corre incontro la vecchia, arrabbiata più di prima, impreca e litiga più di prima:
“Ah tu, vecchio cane, imbecille! Non sei capace di servirti della fortuna. Ti ho chiesto un'izba, e tu, ecco, sarà fatto! No, invece! Va' di nuovo dal pesce d'oro e digli che io non voglio più essere contadina, ma moglie del governatore, in modo che la gente mi obbedisca, e quando le persone mi incontrano mi facciano l’inchino fino alla cintola!”.
Andò il vecchio al mare e gridò con grossa voce: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me.”
Nuotò a riva il pesciolino, si mise con la coda in mare e la testa verso il vecchio: “Che cosa vuoi, vecchio?” .
Rispose il vecchio: “La vecchia non mi dà pace, è del tutto impazzita. Non vuole essere più contadina, ma moglie del governatore!”.
“Bene, non affliggerti! Torna a casa, prega Dio, tutto sarà fatto!”
Tornò a casa il vecchio, e invece dell'izba adesso c'è una casa di pietra, una casa di tre piani.Nel cortile i servitori corrono di qua e di là, in cucina i cuochi battono e lavorano, la vecchia in un prezioso abito di broccato sta seduta su un'alta poltrona e dà ordini.
“Salute, moglie!”, disse il vecchio.
“Ah tu, rozzo ignorante ! Come osi chiamar me tua moglie, me, la moglie del governatore? Ehi, gente, portate questo contadinaccio nella scuderia e frustatelo quanto più potete.”
Subito i servitori accorsero, presero il vecchio per la collottola e lo trascinarono nella scuderia. Cominciarono gli scudieri a frustarlo, e lo frustarono a tal punto che egli a mala pena poteva reggersi sulle gambe.
Dopo di che la vecchia gli diede l' incarico di portinaio, ordinò che gli fosse data una scopa, e che pulisse il cortile. Ordinò anche che gli fosse dato da mangiare a da bere in cucina.
Mala vita per il vecchietto! Per tutto il giorno deve scopare il cortile, e non appena trovano che c’è qualche punto non pulito bene, subito nella scuderia, e giù frustate!
“Che strega!” pensa il Vecchio. "Ha avuto una fortuna, e adesso si mette a grufolare come un porco, e non mi considera più neppure suo marito!"
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere moglie del governatore e, fece chiamare il vecchio, e gli ordinò:
“Va', vecchio demonio, dal pesciolino d'oro, e digli che non voglio più essere moglie di governatore, ma zarina!”
Andò il vecchio al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Arrivò il pesciolino d'oro nuotando: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?”
“Ecco, mia moglie è del tutto impazzita, più di prima. Non si contenta più di essere la moglie del governatore, adesso vuole essere zarina.”
“Non affliggerti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
Il vecchio tornò a casa e invece del palazzo di prima trovò un alto palazzo dal tetto d' oro, con intorno le sentinelle che fanno il presentat'arm. Davanti al palazzo c'è un verde prato. Nel prato ci sono i soldati, in fila. La vecchia è vestita da zarina, viene fuori sul balcone con i generali e i boiari, e fa la rassegna delle truppe, sta attenta al cambio delle sentinelle. Rullano i tamburi, suona la musica, i soldati gridano “Hurrà”.
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere zarina e ordinò di chiamare il vecchio, che si presentasse davanti ai suoi occhi luminosi.
Ci fu una grande confusione, i generali si danno da fare, i boiari corrono, non sanno dove sbattere la testa: “Quale vecchio?”.
A gran fatica riuscirono a trovarlo nel cortile delle immondizie, e lo portarono dalla regina.
“Ascolta, vecchio demonio!” gli dice la vecchia. “Va' dal pesciolino d'oro a digli: non voglio più essere zarina, ma voglio essere la signora dei mari, in modo che tutti i mari e tutti i pesci mi ubbidiscano.”
Il vecchio tentò di rifiutarsi, ma che vuoi farci? La zarina ti fa staccar la testa! Con il cuore stretto, andò al mare, e disse:
«Pesciolino, pesciolino, mettiti con la coda in mare e la testa verso di me”.
Ma il pesciolino d'oro non si vede, proprio non si vede! Il vecchio lo chiama una seconda volta. Di nuovo, niente! Lo chiama una terza volta, e a un tratto il mare si gonfia e muggisce; prima era tutto sereno, pulito, e ora tutto nero.
I1 pesciolino nuotò a riva: “Che vuoi, vecchio?” .
”La vecchia è diventata ancora più pazza; non vuole più essere zarina, vuole essere la signora del mare, dominare su tutte le acque, comandare a tutti i pesci.”
Il pesciolino d'oro non disse nulla al vecchio, si voltò e sprofondò nel mare.
Il vecchio tornò a casa, guardò e non credette ai suoi occhi: il palazzo era come se non ci fosse mai stato, al suo posto stava la vecchia izba decrepita, e nell'izba stava seduta la vecchia, con il suo vecchio sarafan' stracciato e la testa tra le mani.
Ritornarono a vivere come prima, il vecchio ritornò alla sua pesca in mare; solo che, per quante volte gettasse le reti in acqua, non riuscì più a prendere il pesciolino d'oro.

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Aleksandr Puskin

 
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Non era buona a nulla

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Il giudice stava affacciato alla finestra, con i polsini inamidati, una spilla sullo sparato della camicia e tutto ben rasato; si era rasato lui stesso e in realtà si era fatto un tagliettino, ma lo aveva già coperto con un pezzetto di giornale.
«Senti, ragazzo!» chiamò.
Il ragazzo non era altri che il figlio della lavandaia, che stava passando di lì. Rispettosamente, si tolse il berretto, che si poteva piegare e era fatto apposta per essere messo in tasca. In quei vestiti miseri, ma puliti e rattoppati con cura, ai piedi pesanti zoccoli di legno, il ragazzo se ne rimaneva rispettosamente fermo come si fosse trovato davanti al re in persona.
«Sei un bravo ragazzo!» disse il giudice «e sei un ragazzo educato. Tua madre sta sciacquando i panni giù al ruscello, vero? e tu stai andando là a portarle quello che hai in tasca. Brutta storia, questa di tua madre! Quanto ne hai?»
«Mezzo quarto» disse il ragazzo spaventato, con una vocina debole.
«E stamattina ha avuto lo stesso?» continuò l'uomo.
«No, era ieri» rispose il ragazzo.
«Due mezzi quarti fanno un quarto! Non è buona a nulla: fa proprio pena questa gente! Di' a tua madre che dovrebbe vergognarsi, e non diventare anche tu un ubriacone; ma tanto lo diventerai di sicuro! povero ragazzo, vai adesso!»
E il ragazzo se ne andò; teneva il berretto in mano e il vento gli soffiava tra i capelli biondi che si sollevavano a ciuffi. Girò in una strada, entrò in un vicolo fino a che arrivò al ruscello; lì la madre era nell'acqua vicino a un cavalletto e batteva la pesante biancheria con una mazza. C'era una forte corrente nel ruscello, perché le chiuse del mulino erano aperte; il lenzuolo veniva trascinato dalla corrente e stava per ribaltare il cavalletto: la lavandaia doveva trattenerlo con forza.
«Non ce la faccio quasi più!» disse «per fortuna sei arrivato. Ho proprio bisogno di recuperare un po' le forze. Fa freddo nell'acqua, e sono già sei ore che sto qua. Mi hai portato qualcosa?»
Il ragazzo tirò fuori la bottiglia che la madre si portò alla bocca, bevendone un sorso.
«Ah, come va giù bene, e come riscalda! È come mangiare del cibo caldo, ma non è così caro! bevi anche tu, ragazzo mio! Sei così pallido, stai gelando con quei vestiti leggeri! E poi è già autunno. Uh, l'acqua è gelida! Speriamo di non ammalarmi! No, non c'è pericolo. Dammi un altro sorso e bevine anche tu ma solo un goccio, non ti devi abituare a bere, povero ragazzo mio!»
Salì sul ponte dove si trovava il ragazzo e raggiunse la riva; l'acqua colava dalla stuoia che aveva intorno alla vita e gocciolava dalla gonna.
«Sgobbo talmente che quasi mi esce il sangue dalle unghie, ma non mi importa, purché riesca a fare di te un bravo ragazzo, figlio mio!»
In quel momento arrivò una donna più anziana, scarna e poveramente vestita, zoppa da una gamba e con un grosso ricciolo fìnto che le scendeva su un occhio guercio, per nasconderlo, rendendo in realtà il difetto più appariscente, i vicini la chiamavano "la zoppa col ricciolo".
«Poveretta! Come ti affatichi nell'acqua gelida! Hai certo bisogno di qualcosa per riscaldarti, e pensare che la gente ti critica perché bevi un goccio!» e subito il discorso tenuto dal giudice al ragazzo venne riferito alla lavandaia, perché la vecchia lo aveva sentito e si era arrabbiata a sentir parlare in quel modo a un ragazzo di sua madre per quel poco che beveva; quando poi il giudice organizzava pranzi con vino a volontà. «Vini pregiati e vini forti, e quasi tutti bevono più del necessario! Ma per loro quello non vuol dire bere! Loro vengono rispettati, tu invece non sei buona a nulla!»
«Ti ha parlato così, figlio mio?» chiese la lavandaia, le labbra tremanti. «Tua madre non è buona a nulla! Forse ha ragione ma non dovrebbe dirlo al ragazzo. Certo che ricevo molti dolori da quella casa!»
«Già, hai servito da loro quando i genitori del giudice ancora vivevano! Quanti anni sono passati! E hai dovuto ingoiarne di bocconi amari da allora, puoi ben avere sete!» disse ridendo la vecchia. «Oggi c'è un pranzo importante dal giudice, doveva venire annullato ma ormai è troppo tardi e poi il cibo è già pronto. L'ho saputo dal servo. Meno di un'ora fa è arrivata una lettera che annunciava che il fratello più giovane è morto a Copenaghen.»
«Morto!» gridò la lavandaia, impallidendo.
«Come!» esclamò la donna «te la prendi tanto? Certo lo conoscevi dal tempo in cui prestavi servizio in casa.»
«È morto! era l'uomo migliore del mondo, il più buono! Il Signore non ne ha tanti come lui!» e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Dio! mi gira la testa! Forse perché ho finito la bottiglia. Non lo sopporto più! Sto così male!» e si appoggiò al cavalletto.
«Signore! stai proprio male!» disse la donna. «Cerca di riprenderti! No, stai proprio male. E meglio che ti porti a casa.»
«E la biancheria?»
«Me ne occupo io. Prendimi sottobraccio. Il ragazzo può restare qui a controllare finché non tornerò a lavare il resto: non è molto.»
La lavandaia non si reggeva in piedi.
«Sono stata troppo tempo nell'acqua gelata. Da stamattina non ho bevuto né mangiato. Mi sento la febbre in corpo! Oh, Signore Gesù, aiutami ad arrivare a casa! povero figlio mio!» e piangeva.
Il ragazzo si mise a piangere anche lui e sedette in riva a ruscello vicino alla biancheria bagnata. Le due donne si avviarono lentamente, la lavandaia vacillava, camminarono lungo il vicolo, poi per la strada proprio davanti alla casa del giudice, e la donna cadde a terra. La gente le si affollò attorno.
La vecchietta entrò in casa a cercare aiuto. Il giudice si affacciò alla finestra con i suoi ospiti.
«È la lavandaia!» esclamò «ha bevuto troppo. È una buona a nulla! È un peccato per il suo bel figliolo, voglio molto bene a quel ragazzo, ma la madre non è buona a nulla.»
La donna rinvenne e venne portata nella sua misera casa, e messa a letto. La vecchia amica andò a scaldare una scodella di birra con burro e zucchero, che secondo lei era la medicina migliore. Poi tornò al ruscello e sciacquò tutto molto male, ma con buona volontà, riportò la biancheria a terra e la mise in una cassa. Verso sera tornò nella misera casa della lavandaia. Aveva avuto dalla cuoca del giudice due patate rosolate con lo zucchero e un bel pezzo di prosciutto grasso per la malata, ma se lo mangiarono lei e il ragazzo; la malata si riprese sentendone l'odore. «È così sostanzioso!» disse.
Il ragazzo andò a dormire nello stesso letto dove si trovava la madre, ma il suo posto era di traverso dalla parte dei piedi, con una vecchia coperta ricavata da strisce di stoffa azzurra e rossa cucite insieme.
La lavandaia stava un po' meglio; la birra calda le aveva ridato forza e l'odore del buon cibo le aveva fatto bene.


«Grazie, amica mia!» disse alla vecchia. «Ti dirò tutto, quando il ragazzo si sarà addormentato. Credo anzi che dorma già. Non ha una espressione dolce e beata, con gli occhi chiusi? Non sa che vita fa sua madre, che il Signore non glielo faccia mai provare! Io ero a servizio nella casa del consigliere il padre del giudice, e un giorno tornò a casa il più giovane dei loro figli, studente all'università. A quel tempo ero giovane e impetuosa, ma onesta, questo lo posso affermare davanti a Dio» raccontò la lavandaia. «Lo studente era così allegro e felice, aveva un carattere tanto buono e sincero. Non è certo esistito un uomo migliore di lui sulla terra. Lui era il figlio del padrone e io ero solo una cameriera, ma ci fidanzammo, restando puri e onesti. Un bacio non è certo un peccato quando ci si vuol bene. Lo raccontò a sua madre, che per lui era come il Dio in terra, così intelligente, affettuosa e amabile. Poi lui ripartì, ma mi mise l'anello d'oro al dito. Quando era ormai lontano, sua madre mi chiamò da lei, seria, ma con molta dolcezza, mi parlò, come avrebbe fatto il Signore; mi spiegò la differenza che c'era tra me e lui. "Ora lui vede solo che sei bella, ma la bellezza sfiorirà! Tu non sei istruita come lui, non riuscirete a comprendervi sul piano spirituale e proprio qui sta il male. Rispetto il povero" riprese "presso Dio avrà forse un posto migliore di molti ricchi, ma sulla terra non si può seguire un binario sbagliato quando si va avanti, altrimenti il carro si ribalta, e voi con lui! So che un uomo onesto, un artigiano ti ha chiesto in sposa, è Enrico il guantaio; è vedovo e non ha figli; e se la passa bene. Pensaci!" Ogni parola pronunciata era come un coltello che mi trafiggeva il cuore, ma quella donna aveva ragione e questo mi ossessionava e mi opprimeva; le baciai la mano e piansi lacrime amare, ma piansi ancora di più in camera mia quando mi buttai sul letto. La notte che venne fu una brutta notte, il Signore sa che cosa ho sofferto. La domenica andai all'altare del Signore, per far luce dentro di me. Fu come un segno della Provvidenza: uscendo dalla chiesa incontrai Enrico il guantaio. Allora non ebbi più dubbi, eravamo adatti l'uno all'altra per ceto sociale e condizione, e lui era anche benestante, così andai diretta da lui, gli presi la mano e gli chiesi: "Pensi ancora a me?". "Sì, per sempre!" rispose. "Vuoi una ragazza che ti stima e ti rispetta, ma che non ti ama? L'amore potrà venire dopo." "Verrà!" replicò e così ci prendemmo per mano. Tornai dalla mia padrona; quell'anello d'oro che suo figlio mi aveva dato, lo portavo sul petto; non lo potevo certo mettere al dito di giorno, ma lo facevo di notte, quand'ero a letto. Baciai l'anello finché mi sanguinò la bocca e poi lo diedi alla mia padrona dicendo che la settimana dopo sarebbe stato annunciato dal pastore il matrimonio tra me e il guantaio. Lei mi abbracciò e mi baciò; non disse che non ero buona a nulla, ma forse allora ero migliore, anche se non avevo ancora provato tante tribolazioni. Così venne celebrato il matrimonio, il giorno della Candelora - e il primo anno andò bene, avevamo un aiutante e un garzone e tu ci servivi in casa.»
«Oh, eri un'ottima padrona!» le disse la vecchia «non dimenticherò mai quanto siete stati buoni, tu e tuo marito.»
«Furono anni felici quelli. Figli non ne avevamo. E io non rividi mai più lo studente. O meglio, lo vidi, ma lui non mi vide. Era venuto per il funerale di sua madre. Lo vidi vicino alla tomba, era bianco come il gesso e tristissimo, ma certo a causa di sua madre. Quando poi morì suo padre, si trovava all'estero e non tornò a casa, e da allora non è più tornato. So che non si è mai sposato, credo che sia diventato procuratore. Di sicuro non si ricordava di me, e se anche mi avesse rivista, non mi avrebbe certo riconosciuta, sono così brutta adesso. Forse è stato un bene!»
Poi raccontò dei duri periodi di sofferenza, della sfortuna che li aveva colpiti in continuazione. Possedevano cinquecento talleri e dato che nella loro strada c'era una casa che costava duecento talleri e che valeva la pena di demolire e ricostruire, la comprarono. Il muratore e il falegname fecero un preventivo di milleventi talleri: Enrico il guantaio aveva buon credito e ottenne un prestito da Copenaghen, ma la nave che lo doveva portare naufragò e con essa anche i soldi!
«In quel tempo nacque il mio caro figliolo che ora dorme. Suo padre si ammalò di una lunga e grave malattia, dopo nove mesi dovevo vestirlo e svestirlo io. Andò sempre peggio per noi, facemmo debiti sempre più grossi, tutta la nostra merce andò perduta e infine mio marito morì. Io ho faticato molto, moltissimo per questo figlio; ho lavato scale, biancheria fine e grossa, ma il Signore non vuole che le cose mi vadano meglio, così un giorno si libererà di me e avrà cura del ragazzo.»
Così dicendo, si addormentò.
Il mattino dopo si sentì guarita e abbastanza in forze per tornare a lavare, così almeno credeva. Era appena entrata nell'acqua gelida quando le vennero i brividi e si sentì debole. Annaspò disperatamente, fece un passo per risalire e cadde in acqua. Aveva la testa sulla terra asciutta, mentre i piedi stavano nel ruscello; gli zoccoli di legno che aveva quand'era in acqua e che aveva riempito di paglia per tenersi calda galleggiavano spinti dalla corrente. Venne trovata così dalla vecchia Marietta che le stava portando un caffè.
Il giudice le aveva detto che la lavandaia doveva recarsi immediatamente da lui, perché aveva qualcosa da dirle. Ma era troppo tardi. Venne chiamato il barbiere per fare un salasso; la lavandaia era morta.
«È morta per il troppo bere!» commentò il giudice.
Alla lettera che annunciava la morte del fratello era stata allegata copia del testamento: seicento talleri dovevano essere dati alla vedova del guantaio, che una volta era stata a servizio dai genitori. Il denaro poteva venir diviso, come meglio credevano, tra lei e il figlio.
«C'è stato certo qualcosa tra lei e mio fratello!» disse il giudice. «Per fortuna che lei ormai se n'è andata, il ragazzo riceverà tutta la somma e io lo metterò a lavorare da gente onesta, così diventerà un bravo artigiano.»
Il Signore benedisse quell'augurio.
Il giudice chiamò a sé il ragazzo, gli promise che avrebbe avuto cura di lui e gli disse che era un bene che sua madre fosse morta, dato che non era buona a nulla.
Fu portata al cimitero, al cimitero dei poveri. Marietta piantò una pianta di rose sulla tomba e il ragazzo le stava vicino.
«La mia cara mamma!» esclamò tra le lacrime «è proprio vero: non era buona a nulla!»
«Ti sbagli, era buona, invece» rispose la vecchia guardando verso il cielo. «Lo so da tanto tempo e soprattutto dall'ultima notte. Te lo dico io che era buona! e lo dice anche Nostro Signore che sta nel regno dei cieli. Lascia che gli altri dicano: "Non era buona a nulla!".»

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Hans Christian Andersen


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La Tartaruga stregata

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C’era una volta…etc...

C’era una volta un imperatore con tre figli. Giunta l’età giusta per sposarsi, l’imperatore disse:
“Bambini miei, siete diventati grandi, è tempo di andare a cercare le vostre promesse spose e così anche voi farete parte del mondo degli adulti!”
“ Le tue parole sono sante come una icona” risposero i figli.
Dopo aver baciato la mano del padre andarono a preparasi per la partenza.
Il primogenito indossò i migliori vestiti che aveva, prese con se molto denaro e accompagnato da un piccolo esercito si diresse all’Est. Arrivò al castello dell’ imperatore dell’Est che aveva una figlia unica. La chiese in sposa e la risposta fu positiva.
Anche il secondo figlio che era partito verso Ovest ed aveva fatto tutto come il fratello maggiore: tornò fidanzato con la figlia dell’imperatore di Ovest.
Il terzo fratello non aveva voglia di fidanzamenti ma visto che il padre insisteva tanto partì anche lui, ma senza sapere dove andava, un poco di qua, un poco di là. Non mise vestiti speciali ma quelli che indossava normalmente. Camminava in modo svogliato mettendo un piede di fronte all’altro, tanto per dire che si muoveva…
Il sentiero che seguiva lo portò in riva ad un laghetto. Tanto per fare qualcosa raccolse un rametto poi si sedette. Cominciò a muovere il bastoncino nell’acqua creando sulla superficie del laghetto delle onde a forma di cerchio. Guardava i cerchi che si allargavano sempre più fino a sparire del tutto.
Dall’acqua spuntò una tartaruga che lo guardava teneramente. Egli continuò a fare cerchi nell’acqua e la tartaruga era lì ma sprofondato nei suoi pensieri non la vide. Finalmente si accorse che una tartaruga seguiva la punta del suo bastone e la guardò.
Sentì una strana sensazione come se il cuore gli dicesse qualcosa. Dimenticandosi della ricerca della sposa tornò al laghetto nei due giorni successivi. Il terzo giorno si ricordò finalmente perché si trovava in viaggio!
Quando decise ormai di partire la tartaruga saltando fuori dall’acqua gli lancio uno sguardo profondo. Voleva partire ma le gambe non rispondevano…era bloccato.
”Sarebbe questa la mia fidanzata?!” disse a voce alta.
“Ti ringrazio amore mio” rispose la tartaruga. “Le tue parole hanno rotto l’incantesimo che mi teneva incatenata. Tu sei il mio promesso sposo e ti seguirò finché vivrò."
Il giovane si spaventò a sentire la tartaruga parlare e sarebbe scappato via se la voce non fosse stata dolce come il miele. La tartaruga si capovolse tre volte e diventò una stupenda e delicatissima fata.
Il ragazzo se ne innamorò perdutamente ma non si mosse per paura di non far svanire la straordinaria apparizione.
Si misero a parlare e neanche loro sapevano cosa stessero dicendo… Qui cominciava una cosa, là veniva dimenticata un’altra…finché si accorsero che era calata la sera.
Visto che l’indomani i due fratelli maggiori avevano l’intenzione di presentare a corte le loro fidanzate, il giovane disse che sarebbe tornato al palazzo per avvisare l’imperatore che anche lui aveva trovata la sua futura sposa.
La tartaruga tornò nel laghetto e il principe si diresse al castello di suo padre.
Mentre camminava gli sembrava che qualcuno lo tirasse per la giacca all’indietro. Egli si girava ma non vedeva niente.
Quando giunse trovò tutti riuniti da suo padre. Lui racconto la sua avventura ma quando disse di aver rivolto alla tartaruga le parole: “tu sarai la mia fidanzata” scoppio una risata fragorosa e cominciarono a prenderlo in giro. Lui pensò: “ridete pure, vediamo chi ride per ultimo.”
L’indomani ogni ragazzo andò a cercare la propria ragazza e l’imperatore ordinò di adornare il palazzo a festa. Tutto il popolo era venuto al castello per vedere le principesse.
Arrivarono l’uno, poi l’altro i due fratelli maggiori con le loro fidanzate. Per dire il vero anche loro erano bellissime. I vestiti stavano loro a pennello. Portavano tesori come dote: schiavi, cavalli, carri forzieri.
L’imperatore le ricevette così come un imperatore deve ricevere i figli di imperatori.
Quando furono tutti presenti tornarono a parlare della tartaruga e a sparlare del fratello più giovane. L’imperatore era addolorato poiché amava tutti figli e non voleva che il più giovane fosse preso in giro dai fratelli. Di fronte al padre i due grandi non osavano ma quando il padre non era presente lo deridevano allegramente.
Anche il minore era andato a prendere la sua fidanzata, la tartaruga. Uscita dall’acqua dopo essersi capovolta per tre volte tornò umana. Parlarono molto poi lui le disse di prepararsi per andare.
Lei rispose: “Carissimo fidanzato, sappi che pure io sono figlia di un grande imperatore ricco e potente ma il nostro regno è stato stregato: il nostro palazzo ricoperto dall’acqua sporca del lago e l’impero portato via dai nemici.”
La sua voce dolce, le cose che diceva avevano completamente fatto girar la testa al principe.
Riscuotendosi egli disse: “Sarai la mia sposa e non ha importanza quel che dice la gente, Vai a vestirti per partire, ci aspettano mio padre, i fratelli e le cognate.”
La fata aggiunse:“Si usa fare il bagno prima delle nozze!”
“Lo faremmo al castello di mio padre”
“Perché disturbare lì?” e facendo un segno con la mano le acque si ritirarono e al loro posto si poterono vedere dei palazzi meravigliosi coperti d’ oro luccicanti al sole del mattino.
La fata lo prese per mano ed entrarono nel palazzo.
Egli era sbalordito della bellezza e la ricchezza dei luoghi. Il principe aveva timore di calpestare i pavimenti fatti con marmi preziosi. Finito il bagno uscirono nel giardino immerso in un atmosfera ricca di profumi inebrianti. La principessa fece portare all’ingresso una carrozza tempestata di gemme preziose con struttura in oro.
Sedettero nella carrozza e fra i capelli della ragazza si accesero le luci di mille stelle. I loro vestiti erano fatti con meravigliosi tessuti.
I cavalli si mossero: sembravano volare…In un attimo giunsero al castello del padre che già si preoccupava per il ritardo.
Quando li videro, tutti capirono che la sposa veniva da un mondo di favola e si affrettarono a congratularsi con lo sposo. Nessuno aveva mai visto riunite tanta bellezza e ricchezza.
I fratelli maggiori si pentirono delle loro risate. L’imperatore non stava più nella pelle dalla felicità.
La fata dimostrò amicizia e bontà con tutti. I presenti vedevano e ascoltavano solo lei. I fratelli maggiori consigliarono alle loro spose di imparare i modi della loro cognata.
L’imperatore vedeva esaudito il suo desiderio di far sposare i tre figli tutti nello stesso giorno.
Usciti dalla chiesa cominciò la musica e tutti ballarono ma nessuno era bravo come la sposa del figlio minore.
La sera l’imperatore dette un gran banchetto per tutti: dai nobili all’ultimo popolano.

Ero anch'io da quelle parti. Visto che ho avuto anch'io un osso da spolpare, ho pensato di raccontarvi, vostri signori, cose che se credute, mi farebbero passare per bugiardo..... …



Petre Ispirescu traduzione dal Rumeno di Avian


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Il nano Tremotino

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C'era una volta...un mugnaio che tutti sapevano essere un gran fanfarone. Egli infatti sosteneva che il suo mulino era il più grande di tutti, la sua casa la più pulita del villaggio, la sua farina la più bianca di tutto il regno. Le sue spacconate erano talmente esagerate che giunsero persino alle orecchie del Re.
Così un giorno che, con tutto il suo corteo, sua maestà passava di lì, lo volle conoscere.
Il mugnaio gli presentò la figlia e non seppe resistere all' idea di raccontare un altra fandonia.
"Sire, guardate mia figlia, è la fanciulla più bella del reame!"
Il Re, dubbioso, guardò la ragazza, e rimase in assoluto silenzio.
Per nulla scoraggiato, il mugnaio continuò:
"...e poi è molto intelligente ed è bravissima in tutto!" Il Re tacque ancora.
Il mugnaio, che assolutamente voleva impressionarlo, non trovò di meglio che inventare:
"Pensate che mia figlia è capace di filare la paglia e la trasforma in oro!"
Il Re, abbastanza seccato, questa volta rispose da par suo: "Benissimo, la metterò subito alla prova! Se tramuterà la paglia in oro sarà ricompensata, altrimenti morirà!"
E ordinò alle guardie di condurre la ragazza al castello.
Il Re chiuse la fanciulla in una stanza con un mucchio di paglia e le ordinò: "Trasformala tutta in oro entro domani!"
La povera ragazza, rimasta sola, scoppiò a piangere disperata.
"Padre mio, in che guaio mi hai cacciata!" disse singhiozzando, quando, a un tratto, apparve dal nulla un piccolo gnomo tutto vestito di rosso, con una lunga barba bianca, che le disse:
"Se ti aiuterò a tramutare in fili d' oro questa paglia, tu cosa mi darai in cambio?"
La ragazza gli porse un bellissimo gioiello a forma di cuore che aveva al collo e gli disse:
"Posso darti questo, è la cosa più preziosa che ho!"
Lo gnomo accettò e la mattina seguente la fanciulla, che aveva dormito tutta la notte di un sonno agitato, vide che la promessa era stata mantenuta.
Il Re, certo che il suo ordine non poteva essere stato eseguito, aprì la porta della cella, pronto a far punire la giovane. Ma si fermò sbalordito: sul tavolo davanti a lui c'erano ben allineati sei rocchetti di fili d' oro.
Il Re, soddisfatto, pensò di sfruttare la situazione a proprio vantaggio.
"Sei stata molto brava, ma ti manderò altra paglia perché mi serve dell' altro filo d' oro!"
La ragazza, che non poteva svelare la storia dello gnomo, si disperò più di prima, ma nel corso della notte comparve ancora una volta lo gnomo.
"Cosa mi dai" chiese alla ragazza "se ti aiuto ancora?"
"L' unica cosa che mi resta è questo anello antico. Ti prego, accettalo e aiutami, altrimenti la mia sorte è segnata!"
Tutto accadde come la notte precedente e la mattina dopo il Re poté contare felice in quanti rocchetti d' oro era stata trasformata la paglia.
La fanciulla, dopo aver compiuto quel prodigio, gli sembrava adesso molto più graziosa di prima. La fissò a lungo in viso poi ebbe un'idea:
"Filerai un ultima volta della paglia per me e, se anche questa volta riuscirai a tramutarla in oro, io ti sposerò!" le disse.
A questo punto un grande sconforto assalì la ragazza, che pensava tra se: "Se questa notte tornerà lo gnomo, non avrò più niente da offrirgli in cambio del suo aiuto! come riuscirò a salvarmi da questa situazione?"
La poverina era disperata e pianse tutta la sera, finché a notte fonda arrivò nuovamente lo gnomo:
"Sono tornato ancora per aiutarti. Ma questa volta cosa mi darai in cambio?"
La ragazza fra le lacrime rispose: "Questa volta non ho proprio più niente da offrirti, purtroppo!"
Lo gnomo la guardò sorridendo e disse: "Ho saputo che il Re ti sposerà. Quando sarai Regina, io verrò a prendere il tuo primo figlio in cambio dell' aiuto che ti darò adesso per salvarti!"
Senza pensarci troppo, la ragazza accettò il patto e la mattima seguente si ripeté ancora una volta il prodigio.
Il Re, ormai diventato ricchissimo, fece assegnare alla figlia del mugnaio un appartamento in un' ala del castello e cominciò i preparativi per le nozze. La fanciulla si fece promettere che, una volta sposata, non sarebbe più stata obbligata a trasformare la paglia in oro.
Il Re accettò, quindi furono celebrate le nozze. Con gran gioia del mugnaio fanfarone, il matrimonio, nonostante tutto, riuscì bene.
Il Re e la Regina erano molto felici e lo furono ancora di più quando nacque un bel maschietto.
Ormai la Regina aveva dimenticato le passate disavventure, finché un terribile giorno improvvisamente ricomparve lo gnomo:
"Sono venuto a prendere tuo figlio, ricordi il patto che avevamo fatto?"
"Non posso! Non posso mantenere quella promessa che ti feci sventatamente! Ti offrirò in cambio tutti i miei gioielli! Chiedimi qualsiasi altra cosa, ma ti supplico, non portarmi via mio figlio!" singhiozzò la Regina, disperata.
Lo gnomo questa volta sembrava davvero deciso a farle rispettare l'accordo che avevano concluso, ma poi, intenerito dalle lacrime della donna, le fece una proposta:
"Va bene, ti darò quest' ultima possibilità: se riuscirai a indovinare il mio nome ti lascerò il bambino! Ma ricordati, ti lascio solamente tre giorni per scoprirlo, e tu sai per esperienza di quali incredibili magie posso essere capace!"
E detto questo lo gnomo scomparve.
Questa volta la Regina corse dal Re e gli confessò tutto.
Furono allora chiamati alla corte tutti i sapienti del regno, i quali consultarono i loro libri per cercare di trovare il nome dello gnomo.
Sfortunatamente però nessun manoscritto da loro esaminato parlava di gnomi dalla lunga barba bianca, vestiti di rosso e capaci di fare mirabolanti magie.
Erano già trascorsi due giorni e il tempo a disposizione stava per terminare, quando un messaggero del Re riferì di aver assistito, per un fortunato caso, a uno strano rito.
Mentre attraversava un fittissimo bosco, aveva infatti visto un vecchietto vestito di rosso che ballava intorno a un fuoco e cantava:
"Tremotino, Tremotino, il mio nome è tutto qua, se nessuno lo saprà, il bambino mio sarà!"
Il terzo giorno era ornai giunto, e a corte tutti aspettavano con ansia l' arrivo dello gnomo, che improvvisamente comparve dal nulla.
Appena lo vide, la Regina gli puntò il dito dicendo:
"Tremotino!"
A questa parola un lampo colpì lo gnomo, che scomparve in una nube di fumo.
La Regina corse felice ad abbracciare il figlioletto e gli disse:
"Ormai sei salvo! Nessuno potrà più portarti via!"



Wilhelm e Jacob Grimm


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Il Forno

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C'era una volta, ai tempi delle favole, quando i desideri potevano essere esauditi con gli incantesimi, un giovane principe.
Una vecchia strega l'aveva stregato e chiuso in un forno d'acciaio in mezzo alla foresta. Passarono gli anni e nessuno veniva a liberarlo.
Un giorno una giovane principessa, passando per il bosco perse la strada del ritorno al regno di suo padre. Dopo aver vagato per nove giorni si ritrovò in una radura del bosco in mezzo alla quale vide un vecchio forno d'acciaio. Dall'interno sentì una voce che le chiedeva come mai si trovava lì.
"Ho perso la strada del mio regno e non trovo nessuno che mi possa aiutare."
"Ti aiuterò io se anche tu farai quello che ti chiederò. Sono il figlio di un re molto più importante di tuo padre e voglio sposarti."
"Mio Dio - pensò la giovane, - cosa me ne faccio di un vecchio forno!" ma voleva tornare a casa e dunque disse di si.
Comparve una guida che stando al suo fianco e senza dire una parola in due ore la condusse al castello di suo padre.
La gioia fu grandissima all'arrivo della principessa....tanti baci e abbracci col vecchio padre, la ragazza racconto quello che era successo e della promessa fatta al forno di tornare; inoltre doveva portare con se una lama con la quale forare l'acciaio del forno.
Il padre svenne per la paura di rimandare nel bosco la sua unica figlia! Riprendendosi dette l'ordine di mandare nel bosco la bella figlia del mugnaio. La ragazza acconsentì e portò con se una lama.
Arrivata al forno si mise al lavoro ma era impossibile scalfire l'acciaio del forno.
La voce si fecce sentire all'alba:
"Mi sembra che sta per sorgere il giorno"
"Si è vero sento il rumore del mulino!"
"Vai via tu sei la figlia del mugnaio, deve venire la principessa".
Tornata al castello la giovane raccontò quello che era successo ma il re non voleva sentire parlare di mandare la figlia. Scelse una ragazza ancora più bella: la figlia del guardiano dei maiali a cui promise una grande ricompensa in oro.
Anche la seconda ragazza lavorò per 24 ore ma il mattino seguente la superficie del forno non aveva neanche un graffio. La voce si fece sentire:
"Mi sembra l'alba"
"Sembra anche a me, sento il corno che richiama i maiali"
"Vai via! sei la figlia del guardiano dei maiali ...deve venire la principessa."
La principessa si mise a piangere ma non c'era niente da fare. Prese la lama e andò al forno.
Dopo due ore di faticoso lavoro si era formato un piccolo foro nell'acciaio del forno...la ragazza sbircio all'interno e vide un giovane bellissimo elegantemente vestito e pieno di gioielli. Aumentò il ritmo e presto il foro permise l'uscita del principe.
"Il tuo lavoro mi ha liberato! Sarai la mia sposa”.
Il principe desiderava tornare subito al suo regno insieme alla sua futura moglie. La principessa invece voleva tornare al castello per salutare suo padre.
”Va bene ma non devi dire più di tre parole”.
Tornata al castello la principessa dimenticò presto la promessa: aveva tanto da raccontare alle amiche e al padre!
Subito una forza misteriosa portò il forno lontanissimo, oltre le colline di cristallo.
Il principe che era rimasto fuori, era ormai libero.
La principessa tornò nel bosco a cercare il suo fidanzato, portandosi dietro poche cose e denaro quasi niente, ma il forno era sparito! Lo cerco per nove giorni e intanto la fame si faceva sentire.
Una notte si arrampicò su un albero per paura delle bestie della foresta. Da lassù a mezzanotte vide una luce, forse era una casa.
“ Lì sarò al riparo”…allora scese dall'albero e incamminandosi verso la luce trovò una vecchia capanna tutta ricoperta dalle erbacce.
Sbirciando dalla finestra non vide nessuna persona. C’erano tanti rospi e un bel tavolo imbandito con bicchieri di cristallo e piatti d’argento.
Facendosi coraggio la ragazza busso alla porta. Un piccolo rospo aprì la porta e la fecce entrare. Tutti la salutarono e poi la fecero sedere. Chiesero da dove veniva e lei racconto tutto: di come aveva trasgredito all'obbligo delle tre parole con conseguente sparizione del forno. Adesso stava cercando il principe oltre le colline di cristallo.
I rospi le dettero da mangiare e da bere poi le prepararono un magnifico letto fatto di velluto e seta: dormì da dio!
Al mattino il rospo anziano mandò il piccolo rospo a portarle una scatola.
Prese dalla scatola tre aghi che la principessa doveva portare con se per poter riuscire a superare la montagna di ghiaccio, passare oltre le tre spade pungenti e attraversare il grande lago. Dopo essere riuscita in queste prove avrebbe riportato il suo principe. Poi le dette tre cose che sarebbero servite nel viaggio: tre grandi aghi, un piccolo aratro e tre noci. Doveva avere molta cura di loro.
La ragazza riprese il viaggio. Quando arrivò alla montagna di vetro che era tanto sdrucciolevole, lei si conficcò i tre aghi nelle suole delle scarpe e riuscì passo dopo passo ad arrivare in vetta. Là scelse con cura un luogo per nascondere gli aghi.
Arrivata alle tre spade penetranti si sedete sull’aratro e rotolò su. Finalmente arrivò di fronte ad un grande lago, e dopo averlo attraversato, arrivò ad un castello grande e bello.
All’ingresso disse alle guardie di essere una ragazza povera in cerca di lavoro. Comunque, lei seppe che il figlio del Re che lei aveva liberato dalla stufa di ferro nella grande foresta era nel castello.
Fu presa come sguattera in cucina.
Intanto il figlio del Re pensando che lei fosse morta si era fidanzato con un'altra fanciulla.
La sera, dopo aver finito i lavori, la ragazza sentì qualcosa in tasca e così trovò le tre noci che il vecchio rospo le aveva dato. Lei ne ruppe una coi denti e stava per mangiare il nocciolo quando si accorse che all’interno c’era un vestito meraviglioso.
Quando la promessa sposa sentì del vestito, venne e chiese se il vestito fosse in vendita dicendo:
"Non è un vestito per una sguattera”.
La ragazza disse di no, lei non lo avrebbe mai venduto ma se la sposa le accordava una cosa avrebbe potuto averlo gratis: Doveva per una notte lasciarla dormire nella camera del principe!
La sposa diede il suo permesso perché il vestito era così bello, e lei non ne aveva mai avuto uno uguale.
Quando stavano andando a letto disse al principe che la sciocca sguattera avrebbe dormito nella stanza della cameriera. Comunque, per maggiore sicurezza mise nei bicchieri dello sposo e della principessa un fortissimo sonnifero.
La principessa pianse tutta la notte mentre provava a parlare al principe:
“Ti ho liberato dalla stufa, e non mi riconosci più! Sono andata su una montagna di vetro, passata attraverso tre spade acute, ed un grande lago per trovarti e ancora tu non mi senti!"
Il cameriere del principe che passava la notte seduto fuori della stanza del suo padrone senti i lamenti e il pianto della ragazza e di mattina lo disse al suo padrone.
La sera successiva la ragazza aprì un'altra noce trovando un vestito ancora più bello.
La fidanzata del principe chiese ancora se era in vendita ma la ragazza non voleva soldi e chiese di nuovo di passare la notte nella camera del principe. La fidanzata del principe accetto ma come la sera prima, mise il sonnifero nel bicchiere del principe. Tutto fu uguale alla sera precedente e i camerieri avvisarono il principe.
E nella terza sera, quando la ragazza apri la terza noce trovò un vestito tutto d’oro di una bellezza mai vista.
La promessa sposa accetto di lasciare la sguattera nella camera del principe in cambio del vestito. Comunque, il figlio del Re era adesso in guardia e gettò via il sonnifero. Perciò, quando lei cominciò a piangere dicendo: "Amore Prediletto io ti ho liberato quando eri nella stufa di ferro nella foresta selvatica e terribile", il principe sentì tutto, l’abbracciò e decise di sposarla subito.
Partirono la sera stessa in una bella carrozza portando via i vestiti delle noci. Passarono il lago, le spade e la montagna e riuscirono ad arrivare indenni alla casetta dei rospi.
All’interno trovarono tutto cambiato: era un grande castello, ed i rospi erano tutti principi allegri e felici .
Poi il matrimonio fu celebrato, ed il figlio del Re e la principessa rimasero in questo castello che era molto più grande dei castelli dei loro padri.
Il vecchio Re si addolorò ad essere rimasto solo, ma la coppia felice lo portò a vivere con loro.
Avevano due regni, e vissero felici.


Wilhelm e Jacob Grimm

traduzione di Avian


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Il sale

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In una bellissima città della Russia viveva un tempo un ricco mercante che aveva tre figlioli: Fedor, Vassilij e Ivan. I primi due erano abili e svelti negli affari, ma il minore non rivelava alcuna inclinazione per questo genere di attività, perciò il padre aveva ben poca stima di lui, e i fratelli ancor meno.
Un giorno il vecchio mercante chiamò i due figli maggiori e disse:
- E' tempo che mi diate un aiuto e dimostriate che cosa sapete fare. Ho allestito per voi due navi cariche di mercanzie preziose: tappeti, pellicce, essenze odorose, legni pregiati. Fate vela per qualche porto lontano e commerciate: vedrò, al vostro ritorno, chi di voi due avrà saputo far fruttare meglio la sua ricchezza. Vi do un anno di tempo.
I due fratelli furono contentissimi e si prepararono a partire; ma il terzo, poiché non gli era stato affidato alcun incarico, incominciò a lamentarsi:
- Padre mio, perché mai non avete fatto allestire una nave anche per me?
- Perché tu non hai il bernoccolo degli affari. Sciuperesti la roba e torneresti a mani vuote.
- Forse no! Lasciatemi provare, come i miei fratelli.
Ivan tanto pregò e supplicò che finalmente il padre si decise ad affidargli una nave; ma non volendo metter in gioco mercanzie rare, convinto di non rivederle più, fece caricare la nave di pali, assi e tavole di legno di infimo valore.
Così anche Ivan poté partire e il vento gli fu tanto favorevole che in tre giorni raggiunse i suoi fratelli. Veleggiarono per un po' l'uno dietro l'altro, ma a un tratto li colse una burrasca che sconvolse il mare e scatenò un vento furioso: le tre navi si dispersero, e quando ritornò il sereno, Ivan si accorse di essere rimasto solo.
Senza sgomentarsi, il giovane continuò il suo viaggio, e dopo qualche tempo approdò a un'isola sconosciuta. "Chissà che non possa fare buoni affari, qui?" pensò; e scese a terra accompagnato dai marinai. Ma l'isola sembrava deserta e non si vedeva in giro né una capanna né un uomo.
La spiaggia, tutta la terra e anche un'alta montagna erano ricoperte di una polvere bianca e scintillante. "Forse sbaglio, ma questo è sale" pensò Ivan. Ne raccolse un pizzico e l'assaggiò. Era sale davvero, e il giovane, assai contento pensando ai guadagni che avrebbe potuto ricavarne, ordinò:
- Gettate in acqua assi e pali e fate, invece, un carico di sale.
Così fu fatto; il bastimento riprese il mare e veleggiò per molto tempo fino a quando giunse al porto di una grande e ricca città. Sceso a terra, Ivan seppe che proprio in quel luogo viveva lo zar. Allora, dopo aver riempito un sacchetto di sale, si fece indicare il palazzo reale e chiese di essere ricevuto.
- Che cosa vuoi straniero? - gli chiese lo zar - Vedo che arrivi da lontano: hai qualcosa da mostrarmi?
- Maestà, io vendo sale - rispose Ivan - vorrei venderne a voi e a tutti gli abitanti della città.
- Sale? Non so cosa sia. Mostrami questa tua strana merce.
Subito il giovane aprì il sacchetto, ma il sovrano scoppiò a ridere:
- Questa è soltanto sabbia molto bianca! Mi dispiace per te, straniero, ma da noi questa roba non si vende: si regala! Vattene in pace e torna soltanto quando potrai mostrarmi qualcosa di meglio.
Ivan uscì dal palazzo molto deluso, e pensò "Aveva ragione mio padre: ho fatto soltanto un cattivo affare! Tuttavia voglio entrare nelle cucine reali per vedere che specie di sale mettono nelle vivande". Si presentò al capocuoco e chiese di potersi sedere accanto al fuoco per riscaldarsi e riposare.
- Entra, fratello, e riposati quanto vuoi - rispose il capocuoco, e Ivan, dalla sua panca, poté osservare il personale di cucina che preparava le pietanze dello zar.
Chi manipolava la pasta, chi rimestava, chi puliva i pesci, che faceva rosolare l'arrosto: cuochi e cuoche aggiungevano nelle vivande erbe aromatiche e spezie di ogni genere: ma di sale neanche l'ombra. Quando il pranzo fu pronto, tutti uscirono per imbandire la mensa, e Ivan, rimasto solo, aperse il suo sacchetto e gettò rapidamente un pizzico di sale nelle pentole e nei tegami. Poi sgattaiolò fuori e tornò alla sua nave. Quel giorno, a tavola, lo zar ebbe una serie di sorprese: la minestra era squisita, il pesce aveva un sapore delicato e persino il dolce era più buono del solito. Allora chiamò i cuochi.
- E' la prima volta che assaggio cibi così gustosi! Come li avete cucinati?
- Come al solito, maestà - risposero i cuochi - Non riusciamo a capire neppure noi perché oggi il pranzo sia riuscito così bene.
- Però - esclamò ad un tratto il capocuoco - in cucina c'era uno straniero, che, adesso, è tornato alla sua nave. Forse egli ne sa qualcosa.
- Venga subito alla mia presenza - comandò lo zar; e non appena Ivan si presentò, gli chiese con voce irata:
- Che cosa hai aggiunto nelle mie vivande?
Ivan si gettò in ginocchio: - Perdonatemi, maestà: ho messo nei cibi un pizzico di sale. Dalle nostre parti si usa così.
- E' meraviglioso! - esclamò lo zar - Comprerò io, tutto il tuo sale. Quanto chiedi?
- Poco: per ogni misura di sale, voglio una misura d'oro e una misura d'argento.
- E' un prezzo conveniente. Fa scaricare la nave mentre io preparerò il compenso.
Così fu fatto. Per scaricare il sale occorsero tre giorni, e altrettanti per caricare l'oro e l'argento. La stiva fu tanto piena che non ne sarebbe entrato un grammo di più. Il giovane Ivan era già pronto a spiegare le vele, quando al porto giunse la figlia dello zar accompagnata dalle damigelle.
- Straniero, non ho mai visitato una nave - disse la fanciulla - posso veder questa?
Ivan fu ben contento di fare da guida alla bella principessa, ma mentre la conduceva sul ponte, il cielo si oscurò e sul mare scoppiò una violenta burrasca. Trascinata dal vento, la nave ruppe gli ormeggi e fu spinta a tale distanza che quando ritornò il sereno, la terra non si vedeva più.
La principessa si mise a piangere, e Ivan cercò di consolarla:
- E' il destino che vuole così: ti farò conoscere il mio paese, e se vorrai ci sposeremo.
Ivan era un bel giovane: la principessa sorrise.
Il viaggio continuò allegramente, e dopo molti giorni furono avvistate altre due navi. Erano i fratelli di Ivan che facevano ritorno in patria. Ivan li salutò con gioia, e ingenuo e semplice com'era, presentò loro la bella principessa e mostrò le sue ricchezze, convinto che i fratelli ne avrebbero gioito con lui.
Ma i fratelli invece divennero verdi per l'invidia e il dispetto e guardarono il giovane con occhi cattivi: poi presero a confabulare tra loro.
Quella notte, mentre Ivan dormiva, Vassilij e Fedor lo afferrarono e lo gettarono in mare. Poi comandarono minacciosamente alla principessa di non fiatare e ripresero il viaggio verso casa.
Intanto Ivan, toccato il fondo marino, era svenuto. Quando riaperse gli occhi si trovò seduto sopra uno scoglio, vicino a un gigante che toccava il fondo del mare con i piedi, e usciva dall'acqua fino ai gomiti.
- Ti ho salvato io - spiegò il gigante che aveva i baffi lunghi due metri - e se vuoi sapere anche il resto, ti dirò che la tua principessa sposerà Fedor, mentre Vassilij si prenderà le tue ricchezze.
- Ti prego - implorò Ivan - fammi ritornare a casa! Aiutami!
- Avrei voluto tenerti con me - borbottò il gigante - ma non sarebbe stato giusto. Perciò ti accompagnerò a casa, ma, prima di lasciarti andare vorrei che tu rispondessi a questa domanda: qual è la cosa più preziosa che ci sia in terra e in mare?
- Il sale - rispose Ivan.
Allora il gigante si mise il giovane sulle spalle, e lo trasportò fino alla soglia di casa: poi scomparve. Ivan fece per entrare quando udì suo padre che diceva:
- Siete stati molto bravi, figli miei! Ma dove sarà finito Ivan?
- Nella taverna di qualche porto - risero i fratelli.
In quel momento Ivan spalancò la porta. La principessa lo vide e gli corse incontro, buttandogli le braccia al collo. Il padre guardò i figli maggiori e chiese tutto sorpreso:
- Che cosa significa questo?
Ma i figli non diedero spiegazioni: balzarono fuori dall'uscio e corsero fino alle navi, spiegarono le vele e si allontanarono al più presto.
Ivan e la bella principessa si sposarono e vissero felici per moltissimi anni.

di Hans Christian Andersen


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Non era buona a nulla

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Il giudice stava affacciato alla finestra, con i polsini inamidati, una spilla sullo sparato della camicia e tutto ben rasato; si era rasato lui stesso e in realtà si era fatto un tagliettino, ma lo aveva già coperto con un pezzetto di giornale.
«Senti, ragazzo!» chiamò.
Il ragazzo non era altri che il figlio della lavandaia, che stava passando di lì. Rispettosamente, si tolse il berretto, che si poteva piegare e era fatto apposta per essere messo in tasca. In quei vestiti miseri, ma puliti e rattoppati con cura, ai piedi pesanti zoccoli di legno, il ragazzo se ne rimaneva rispettosamente fermo come si fosse trovato davanti al re in persona.
«Sei un bravo ragazzo!» disse il giudice «e sei un ragazzo educato. Tua madre sta sciacquando i panni giù al ruscello, vero? e tu stai andando là a portarle quello che hai in tasca. Brutta storia, questa di tua madre! Quanto ne hai?»
«Mezzo quarto» disse il ragazzo spaventato, con una vocina debole.
«E stamattina ha avuto lo stesso?» continuò l'uomo.
«No, era ieri» rispose il ragazzo.
«Due mezzi quarti fanno un quarto! Non è buona a nulla: fa proprio pena questa gente! Di' a tua madre che dovrebbe vergognarsi, e non diventare anche tu un ubriacone; ma tanto lo diventerai di sicuro! povero ragazzo, vai adesso!»
E il ragazzo se ne andò; teneva il berretto in mano e il vento gli soffiava tra i capelli biondi che si sollevavano a ciuffi. Girò in una strada, entrò in un vicolo fino a che arrivò al ruscello; lì la madre era nell'acqua vicino a un cavalletto e batteva la pesante biancheria con una mazza. C'era una forte corrente nel ruscello, perché le chiuse del mulino erano aperte; il lenzuolo veniva trascinato dalla corrente e stava per ribaltare il cavalletto: la lavandaia doveva trattenerlo con forza.
«Non ce la faccio quasi più!» disse «per fortuna sei arrivato. Ho proprio bisogno di recuperare un po' le forze. Fa freddo nell'acqua, e sono già sei ore che sto qua. Mi hai portato qualcosa?»
Il ragazzo tirò fuori la bottiglia che la madre si portò alla bocca, bevendone un sorso.
«Ah, come va giù bene, e come riscalda! È come mangiare del cibo caldo, ma non è così caro! bevi anche tu, ragazzo mio! Sei così pallido, stai gelando con quei vestiti leggeri! E poi è già autunno. Uh, l'acqua è gelida! Speriamo di non ammalarmi! No, non c'è pericolo. Dammi un altro sorso e bevine anche tu ma solo un goccio, non ti devi abituare a bere, povero ragazzo mio!»
Salì sul ponte dove si trovava il ragazzo e raggiunse la riva; l'acqua colava dalla stuoia che aveva intorno alla vita e gocciolava dalla gonna.
«Sgobbo talmente che quasi mi esce il sangue dalle unghie, ma non mi importa, purché riesca a fare di te un bravo ragazzo, figlio mio!»
In quel momento arrivò una donna più anziana, scarna e poveramente vestita, zoppa da una gamba e con un grosso ricciolo fìnto che le scendeva su un occhio guercio, per nasconderlo, rendendo in realtà il difetto più appariscente, i vicini la chiamavano "la zoppa col ricciolo".
«Poveretta! Come ti affatichi nell'acqua gelida! Hai certo bisogno di qualcosa per riscaldarti, e pensare che la gente ti critica perché bevi un goccio!» e subito il discorso tenuto dal giudice al ragazzo venne riferito alla lavandaia, perché la vecchia lo aveva sentito e si era arrabbiata a sentir parlare in quel modo a un ragazzo di sua madre per quel poco che beveva; quando poi il giudice organizzava pranzi con vino a volontà. «Vini pregiati e vini forti, e quasi tutti bevono più del necessario! Ma per loro quello non vuol dire bere! Loro vengono rispettati, tu invece non sei buona a nulla!»
«Ti ha parlato così, figlio mio?» chiese la lavandaia, le labbra tremanti. «Tua madre non è buona a nulla! Forse ha ragione ma non dovrebbe dirlo al ragazzo. Certo che ricevo molti dolori da quella casa!»
«Già, hai servito da loro quando i genitori del giudice ancora vivevano! Quanti anni sono passati! E hai dovuto ingoiarne di bocconi amari da allora, puoi ben avere sete!» disse ridendo la vecchia. «Oggi c'è un pranzo importante dal giudice, doveva venire annullato ma ormai è troppo tardi e poi il cibo è già pronto. L'ho saputo dal servo. Meno di un'ora fa è arrivata una lettera che annunciava che il fratello più giovane è morto a Copenaghen.»
«Morto!» gridò la lavandaia, impallidendo.
«Come!» esclamò la donna «te la prendi tanto? Certo lo conoscevi dal tempo in cui prestavi servizio in casa.»
«È morto! era l'uomo migliore del mondo, il più buono! Il Signore non ne ha tanti come lui!» e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Dio! mi gira la testa! Forse perché ho finito la bottiglia. Non lo sopporto più! Sto così male!» e si appoggiò al cavalletto.
«Signore! stai proprio male!» disse la donna. «Cerca di riprenderti! No, stai proprio male. E meglio che ti porti a casa.»
«E la biancheria?»
«Me ne occupo io. Prendimi sottobraccio. Il ragazzo può restare qui a controllare finché non tornerò a lavare il resto: non è molto.»
La lavandaia non si reggeva in piedi.
«Sono stata troppo tempo nell'acqua gelata. Da stamattina non ho bevuto né mangiato. Mi sento la febbre in corpo! Oh, Signore Gesù, aiutami ad arrivare a casa! povero figlio mio!» e piangeva.
Il ragazzo si mise a piangere anche lui e sedette in riva a ruscello vicino alla biancheria bagnata. Le due donne si avviarono lentamente, la lavandaia vacillava, camminarono lungo il vicolo, poi per la strada proprio davanti alla casa del giudice, e la donna cadde a terra. La gente le si affollò attorno.
La vecchietta entrò in casa a cercare aiuto. Il giudice si affacciò alla finestra con i suoi ospiti.
«È la lavandaia!» esclamò «ha bevuto troppo. È una buona a nulla! È un peccato per il suo bel figliolo, voglio molto bene a quel ragazzo, ma la madre non è buona a nulla.»
La donna rinvenne e venne portata nella sua misera casa, e messa a letto. La vecchia amica andò a scaldare una scodella di birra con burro e zucchero, che secondo lei era la medicina migliore. Poi tornò al ruscello e sciacquò tutto molto male, ma con buona volontà, riportò la biancheria a terra e la mise in una cassa. Verso sera tornò nella misera casa della lavandaia. Aveva avuto dalla cuoca del giudice due patate rosolate con lo zucchero e un bel pezzo di prosciutto grasso per la malata, ma se lo mangiarono lei e il ragazzo; la malata si riprese sentendone l'odore. «È così sostanzioso!» disse.
Il ragazzo andò a dormire nello stesso letto dove si trovava la madre, ma il suo posto era di traverso dalla parte dei piedi, con una vecchia coperta ricavata da strisce di stoffa azzurra e rossa cucite insieme.
La lavandaia stava un po' meglio; la birra calda le aveva ridato forza e l'odore del buon cibo le aveva fatto bene.

«Grazie, amica mia!» disse alla vecchia. «Ti dirò tutto, quando il ragazzo si sarà addormentato. Credo anzi che dorma già. Non ha una espressione dolce e beata, con gli occhi chiusi? Non sa che vita fa sua madre, che il Signore non glielo faccia mai provare! Io ero a servizio nella casa del consigliere il padre del giudice, e un giorno tornò a casa il più giovane dei loro figli, studente all'università. A quel tempo ero giovane e impetuosa, ma onesta, questo lo posso affermare davanti a Dio» raccontò la lavandaia. «Lo studente era così allegro e felice, aveva un carattere tanto buono e sincero. Non è certo esistito un uomo migliore di lui sulla terra. Lui era il figlio del padrone e io ero solo una cameriera, ma ci fidanzammo, restando puri e onesti. Un bacio non è certo un peccato quando ci si vuol bene. Lo raccontò a sua madre, che per lui era come il Dio in terra, così intelligente, affettuosa e amabile. Poi lui ripartì, ma mi mise l'anello d'oro al dito. Quando era ormai lontano, sua madre mi chiamò da lei, seria, ma con molta dolcezza, mi parlò, come avrebbe fatto il Signore; mi spiegò la differenza che c'era tra me e lui. "Ora lui vede solo che sei bella, ma la bellezza sfiorirà! Tu non sei istruita come lui, non riuscirete a comprendervi sul piano spirituale e proprio qui sta il male. Rispetto il povero" riprese "presso Dio avrà forse un posto migliore di molti ricchi, ma sulla terra non si può seguire un binario sbagliato quando si va avanti, altrimenti il carro si ribalta, e voi con lui! So che un uomo onesto, un artigiano ti ha chiesto in sposa, è Enrico il guantaio; è vedovo e non ha figli; e se la passa bene. Pensaci!" Ogni parola pronunciata era come un coltello che mi trafiggeva il cuore, ma quella donna aveva ragione e questo mi ossessionava e mi opprimeva; le baciai la mano e piansi lacrime amare, ma piansi ancora di più in camera mia quando mi buttai sul letto. La notte che venne fu una brutta notte, il Signore sa che cosa ho sofferto. La domenica andai all'altare del Signore, per far luce dentro di me. Fu come un segno della Provvidenza: uscendo dalla chiesa incontrai Enrico il guantaio. Allora non ebbi più dubbi, eravamo adatti l'uno all'altra per ceto sociale e condizione, e lui era anche benestante, così andai diretta da lui, gli presi la mano e gli chiesi: "Pensi ancora a me?". "Sì, per sempre!" rispose. "Vuoi una ragazza che ti stima e ti rispetta, ma che non ti ama? L'amore potrà venire dopo." "Verrà!" replicò e così ci prendemmo per mano. Tornai dalla mia padrona; quell'anello d'oro che suo figlio mi aveva dato, lo portavo sul petto; non lo potevo certo mettere al dito di giorno, ma lo facevo di notte, quand'ero a letto. Baciai l'anello finché mi sanguinò la bocca e poi lo diedi alla mia padrona dicendo che la settimana dopo sarebbe stato annunciato dal pastore il matrimonio tra me e il guantaio. Lei mi abbracciò e mi baciò; non disse che non ero buona a nulla, ma forse allora ero migliore, anche se non avevo ancora provato tante tribolazioni. Così venne celebrato il matrimonio, il giorno della Candelora - e il primo anno andò bene, avevamo un aiutante e un garzone e tu ci servivi in casa.»
«Oh, eri un'ottima padrona!» le disse la vecchia «non dimenticherò mai quanto siete stati buoni, tu e tuo marito.»
«Furono anni felici quelli. Figli non ne avevamo. E io non rividi mai più lo studente. O meglio, lo vidi, ma lui non mi vide. Era venuto per il funerale di sua madre. Lo vidi vicino alla tomba, era bianco come il gesso e tristissimo, ma certo a causa di sua madre. Quando poi morì suo padre, si trovava all'estero e non tornò a casa, e da allora non è più tornato. So che non si è mai sposato, credo che sia diventato procuratore. Di sicuro non si ricordava di me, e se anche mi avesse rivista, non mi avrebbe certo riconosciuta, sono così brutta adesso. Forse è stato un bene!»
Poi raccontò dei duri periodi di sofferenza, della sfortuna che li aveva colpiti in continuazione. Possedevano cinquecento talleri e dato che nella loro strada c'era una casa che costava duecento talleri e che valeva la pena di demolire e ricostruire, la comprarono. Il muratore e il falegname fecero un preventivo di milleventi talleri: Enrico il guantaio aveva buon credito e ottenne un prestito da Copenaghen, ma la nave che lo doveva portare naufragò e con essa anche i soldi!
«In quel tempo nacque il mio caro figliolo che ora dorme. Suo padre si ammalò di una lunga e grave malattia, dopo nove mesi dovevo vestirlo e svestirlo io. Andò sempre peggio per noi, facemmo debiti sempre più grossi, tutta la nostra merce andò perduta e infine mio marito morì. Io ho faticato molto, moltissimo per questo figlio; ho lavato scale, biancheria fine e grossa, ma il Signore non vuole che le cose mi vadano meglio, così un giorno si libererà di me e avrà cura del ragazzo.»
Così dicendo, si addormentò.
Il mattino dopo si sentì guarita e abbastanza in forze per tornare a lavare, così almeno credeva. Era appena entrata nell'acqua gelida quando le vennero i brividi e si sentì debole. Annaspò disperatamente, fece un passo per risalire e cadde in acqua. Aveva la testa sulla terra asciutta, mentre i piedi stavano nel ruscello; gli zoccoli di legno che aveva quand'era in acqua e che aveva riempito di paglia per tenersi calda galleggiavano spinti dalla corrente. Venne trovata così dalla vecchia Marietta che le stava portando un caffè.
Il giudice le aveva detto che la lavandaia doveva recarsi immediatamente da lui, perché aveva qualcosa da dirle. Ma era troppo tardi. Venne chiamato il barbiere per fare un salasso; la lavandaia era morta.
«È morta per il troppo bere!» commentò il giudice.
Alla lettera che annunciava la morte del fratello era stata allegata copia del testamento: seicento talleri dovevano essere dati alla vedova del guantaio, che una volta era stata a servizio dai genitori. Il denaro poteva venir diviso, come meglio credevano, tra lei e il figlio.
«C'è stato certo qualcosa tra lei e mio fratello!» disse il giudice. «Per fortuna che lei ormai se n'è andata, il ragazzo riceverà tutta la somma e io lo metterò a lavorare da gente onesta, così diventerà un bravo artigiano.»
Il Signore benedisse quell'augurio.
Il giudice chiamò a sé il ragazzo, gli promise che avrebbe avuto cura di lui e gli disse che era un bene che sua madre fosse morta, dato che non era buona a nulla.
Fu portata al cimitero, al cimitero dei poveri. Marietta piantò una pianta di rose sulla tomba e il ragazzo le stava vicino.
«La mia cara mamma!» esclamò tra le lacrime «è proprio vero: non era buona a nulla!»
«Ti sbagli, era buona, invece» rispose la vecchia guardando verso il cielo. «Lo so da tanto tempo e soprattutto dall'ultima notte. Te lo dico io che era buona! e lo dice anche Nostro Signore che sta nel regno dei cieli. Lascia che gli altri dicano: "Non era buona a nulla!".»

UDYmRCi

Hans Christian Andersen

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Il soldatino di piombo

LA19TAJ

Mamma, guarda come sono belli! - Esclamò il bambino saltellando dalla gioia.
Il coperchio della scatola di legno, aperto con impazienza, fece ammirare una ventina di soldatini di piombo allineati come in una parata.
Le uniformi rosso fiammante davano ai piccoli militari un fiero portamento: giacche scarlatte, pantaloni blu scuro, copricapi neri con piume rosse e bianche.
Ognuno portava con fierezza il suo fucile.
Il bambino li prese uno ad uno e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato.
L'ultimo gli sembrò molto curioso: rimaneva perfetta-mente diritto, magnifico come il resto della truppa... ma aveva una gamba sola!
Malgrado questo difetto, o forse proprio per questo, aveva uno sguardo più fiero, più audace degli altri.
Subito, il ragazzino lo prese in simpatia e divenne il suo soldatino preferito.
Sulla tavola si trovava anche un castello di carta... Con il tetto d'ardesia, le mura di pietra con i riflessi dorati, la scala con le ringhiere in ferro, questo castello assomigliava ad un maniero feudale.
Era in mezzo ad un parco verdeggiante ricco di alberi e piante multicolori.
Due cigni bianchissimi navigavano maestosamente in un lago di carta argentata.
Ma la cosa più interessante era una graziosa ragazza che stava sulla porta d'entrata: i biondi capelli raccolti in trecce, gli occhi limpidi come l'acqua del lago, il sorriso dolce e attraente, la rendevano la più bella delle ballerine.
Un vestito etereo, stretto in vita, la faceva sembrare ancora più delicata e fragile.
Con le braccia alzate sopra la testa, rimaneva in perfetto equilibrio sulla punta di un piede.
L'altra gamba, tesa in aria, era in parte nascosta dall'ampia gonna.
Dopo essere uscito dalla scatola, il soldato, attratto dalla bellezza della ballerina, non smise di guardarla nemmeno un attimo.
Egli credeva che avesse una sola gamba come lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore appena nato.
Cercò allora di conoscerla e decise di andarle a far visita appena fosse venuta sera.
Per far ciò, era indispensabile che il bambino si dimenticasse di allinearlo nella scatola.
Il soldatino si lasciò scivolare dietro ad un cofanetto e li rimase sdraiato ed immobile.
Come previsto, il bambino rimise i suoi soldati nella scatola dimenticandosi del nostro eroe!
Venuta la sera, il silenzio invase la casa.
Tutti i suoi abitanti dormivano tranquillamente... ad eccezione dei giocattoli.
Nella penombra, incominciò una folle scorribanda: i palloni giocarono ai quattro cantoni, gli animali di peluche fecero alcune piroette e i soldatini di piombo sfilarono al suono del tamburo di un clown variopinto.
In mezzo a tutta questa agitazione, rimanevano tranquille solo la ballerina di carta, che rimaneva nella sua posa acrobatica, e il soldatino di piombo che, nascosto dal cofanetto, continuava a fissarla.
Malgrado la sua aria marziale e la sua prestanza, era timido e ritardava di minuto in minuto il momento dell'approccio.
Questi momenti di esitazione gli furono fatali!
Tutto preso dalla contemplazione della ballerina, il soldato di piombo non si accorse di un losco figuro, uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto.
Innamorato follemente della ragazza, vedeva nel soldatino un rivale pericoloso, giovane e bello.
Cieco d'invidia, lo chiamò più volte, ma il giovane militare non lo ascoltò neppure.
Allora lo gnomo lo fulminò con gli occhi e lo minacciò:
- Tu mi ignori! Ma ti accorgerai di me ben presto...
Il mattino seguente il bambino si accorse che il soldatino di piombo era rimasto nascosto dietro al cofanetto; lo prese e lo posò sul davanzale della finestra.
Immediatamente, un malaugurato soffio di vento, o forse il soffio vendicatore del rivale, lo fece cadere nel vuoto.
Girando su sé stesso, la testa in basso e i piedi in alto, cadde vertiginosamente.
Non potendo chiudere gli occhi, vide avvicinarsi spaventosamente il terreno.
Quando toccò il suolo, la sua baionetta, con la violenza del colpo, si infisse nell'asfalto e così restò, capovolto.
Il bambino si precipitò in strada per cercarlo, ma le carrozze e i passanti lo nascosero ai suoi occhi.
Disperato, ritornò a casa, piangendo la perdita del suo soldatino preferito.
Improvvisamente cominciò a cadere una violenta pioggia estiva.
In un attimo si formarono rivoli di acqua che inondarono gli scarichi che portano alle fogne.
Due sfaccendati videro il soldatino di piombo ed ebbero la curiosa idea di metterlo in una barchetta di carta che stavano costruendo.
Poi deposero l'imbarcazione sull'acqua.
Sballottato, il fragile scafo fu rapidamente preso dalla corrente turbolenta e scomparve in un gorgo buio.
Il soldatino, convinto che il responsabile delle sue disavventure fosse lo gnomo, pensò che fosse giunta la sua ultima ora.
Passò momenti interminabili nell'oscurità, bagnato dagli spruzzi dell'acqua agitata.
Nessun dubbio! navigava nelle fogne...
Infine vide la luce del sole in lontananza.
La luce si fece sempre più forte e divenne un grande orifizio aperto sulla campagna e la liberta.
- Uff! Sono sano e salvo... Sono scampato all'inferno. - Pensò il soldatino sospirando con sollievo.
Invece i suoi dispiaceri non erano finiti: un'enorme topo di fogna dall'aria feroce, bloccava l'uscita.
I suoi occhi acuti avevano notato il naufrago che stava cercando una via d'uscita.
La corrente era cosi forte che il topo, malgrado le sue cattive intenzioni, non poté prenderlo e con rabbia in cuore lo vide allontanarsi...
Dopo l'ultimo scampato pericolo, la barchetta di carta continuò il suo viaggio attraverso i prati e i campi.
Il corso d'acqua s'allargò diventando un ruscello.
In piedi sull'imbarcazione, il soldatino di piombo osservava i fiori che ornavano le rive tranquille.
Dopo questa momentanea calma, i flutti ridivennero violenti, il ruscello si trasformò in una cascata che si riversava in un lago.
Presa da queste correnti, la barca non riuscì a resistere e si capovolse.
Il soldatino di piombo colò a picco.
Addio graziosa ballerina!
Un enorme pesce che girovagava lo prese per una preda di cui era molto goloso, in un solo boccone lo afferrò e lo inghiotti tutto intero.
Per il soldatino di piombo ci fu di nuovo l'oscurità...
Poco dopo, il pesce venne catturato dalla rete di un pescatore del mercato.
Il caso volle che il pesce fosse proprio comprato dalla cuoca al servizio dei genitori del bambino.
Aprendo il ventre dell'animale per pulirlo, fu meravigliata di trovarci il soldatino perduto.
Lo mise sul tavolo, vicino al castello di cartone.
La ballerina gli mandò un sorriso così dolce da cui capì che anche lei lo amava.
Che felicità dopo tante peripezie!
Ma lo gnomo non aveva ancora rinunciato alla sua vendetta.
Malgrado i suoi sortilegi, infatti, i due giovani si amavano.
Per farla finita suggerì al bambino di sbarazzarsi del soldatino con una sola gamba che rovinava la sua collezione.
L'ingrato, dimenticandosi del suo preferito, lo gettò nel caminetto.
Il soldatino si sciolse rapidamente per il calore, ma la testa, ancora intatta, continuava con gli occhi tristi bagnati di lacrime di piombo, a fissare la ballerina. All'improvviso s'aprì violentemente la porta, una corrente d'aria invase la stanza scaraventando il castello di carta sulle braci ardenti.
Nello stesso istante prese fuoco e bruciò.
Il giorno seguente, facendo le pulizie di casa, qualcuno mescolò le ceneri, ignorando, contrariamente alle intenzioni del diavoletto, di unire per l'eternità il soldatino di piombo e la ballerina di carta.
A meno che il vento non disperda il piccolo mucchio di polvere grigia!


Hans Christian Andersen


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L'Angelo

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Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati.
Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi.
«Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?» chiese l'angelo.
Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano.
«Povera pianta» disse il bambino «prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!»
E l'angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po' gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero.
«Adesso abbiamo i fiori!» disse il bambino, e l'angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c'era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c'era stato un trasloco; dappertutto c'erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte.
E l'angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c'era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato.
«Portiamolo con noi! » disse l'angelo «poi, mentre voliamo, ti racconterò perché.»
E così volarono e l'angelo raccontò:
«Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d'estate i raggi del sole arrivavano per una mezz'ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire:
«Oggi il piccolo è uscito!».
Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n'era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto.
Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l'ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista.
E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l'abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale.»
«Ma come sai tutte queste cose?» domandò il bambino che l'angelo portava in cielo.
«Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!» spiegò l'angelo. «E conosco bene il mio fiore!»



Hans Christian Andersen


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L’Usignolo e la Rosa

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- Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse – si lamentava il giovane Studente – ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa.
Dal suo nido nella quercia lo ascoltò l’Usignolo, e guardò attraverso le foglie, e si meravigliò:
- Non ho una rosa rossa in tutto il mio giardino! – si lamentava lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di lacrime.
- Ah, da qual sciocchezze dipende la felicità! Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ciononostante la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
- Ecco finalmente un vero innamorato – disse l’Usignolo. – Notte dopo notte ho cantato di lui, nonostante non lo conoscessi: notte dopo notte ho favoleggiato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i boccoli del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio; la sofferenza ha reso il suo volto simile a pallido avorio e il dolore gli ha impresso il suo sigillo sulla fronte.
- Il Principe da un ballo domani sera – sibilava il giovane Studente – e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò fra le mie braccia ed ella piegherà il capo sulla mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed ella passerà dinnanzi a me senza fermarsi. Non avrà nessuna cura di me. E il mio cuore si farà a pezzi.
- Ecco certamente un vero innamorato – disse l‘Usignolo. – Ciò che io canto, egli lo patisce, ciò che per me è gioia, per lui è pena. Davvero l’Amore è una cosa straordinaria. È più prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e granati non possono comperarlo, e non è in vendita sulla piazza del mercato. Non possono comprarlo i mercanti, né pesarlo le bilance dell’oro.
- I musicanti siederanno nella galleria – proferiva il giovane Studente – e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno intorno. Ma con me non danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle e si gettò sull’erba, si chiuse il volto tra le mani, e versò lacrime.
- Perché piange? – chiese la Farfalla, che piroettava qua e là inseguendo un raggio di sole.
- Già, perché? – sussurrò una Pratolina al suo vicino, con voce sommessa e tenera.
- Piange per una rosa rossa – disse l’Usignolo.
- Per una rosa rossa! – esclamarono quelli. – Che ridicolaggine! – e il Ramarro, che era un po’ sprezzante, rise di gusto.
Ma l’Usignolo comprendeva il segreto dolore dello Studente, e restava taciturno sulla quercia, a pensare sul mistero dell’Amore. D’improvviso distese le sue brune ali e volò, si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come un’ombra, e come un’ombra svolazzò sul giardino. Al centro dell’aiuola erbosa s’ergeva un bellissimo Rosaio, e non appena l’Usignolo lo vide volò sopra di lui e si posò su un ramo.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosaio scosse il capo.
- Le mie rose sono bianche – ribatté – bianche come vuole la schiuma del mare, e più bianche della neve sulla montagna. Ma va da mio fratello che cresce accanto all’antica meridiana, e forse ti darà quel che desideri.
Allora l’Usignolo volò sul Rosario che germogliava accanto all’antica meridiana.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosario scosse il capo.
- Le mie rose sono gialle – affermò - gialle come i capelli della sirena che siede sopra un trono d’ambra, e più gialle del narciso che sboccia nel prato prima che il mietitore giunga con la sua falce. Ma va da mio fratello che germoglia sotto la finestra delle Studente, e forse ti darà quel che desideri.
Allora l’Usignolo volò sul Rosaio che cresceva sotto la finestra dello Studente.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosario scosse il capo.
- Le mie rose sono rosse – rispose – rosse come i piedi della colomba, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che oscillano nelle grotte degli oceani. Ma l’inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha dilaniato i miei boccioli, e l’uragano ha spezzato i miei rami, e non avrò più rose quest’anno.
- Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo! – urlò l’Usignolo. – Non c’è proprio nessun sistema per averla?
- Un modo c’è – rispose il Rosario – ma è terribile che non ho il coraggio dirtelo.
- Dimmelo – implorò l’Usignolo – io non ho paura.
- Se vuoi una rosa rossa – disse il Rosaio – sei costretto formarla con la musica al lume della luna, e colorarla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggere il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve scendere nelle mie vene e diventare mio.
- La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa – si dolse l’Usignolo – e la vita è così cara a tutti. È dolce tardare nel bosco verde, e ammirare il Sole nel cocchio d’oro, e la luna nel suo cocchio d’argento. Dolce è il profumo della vitalba, e dolci le campanule azzurre che si celano nella valle, e l’erica che fiorisce sul colle. Ma l’Amore è più prezioso della Vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino equiparato al cuore di un uomo?
Così piegò le ali brune nel volo, e si librò nell’aria. Passò attraverso il giardino come un’ombra, e come un’ombra volò sopra il boschetto. Lo Studente era ancora steso nell’erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s’era ancora rasciugato dai suoi occhi.
- Sii felice – gli urlò l’Usignolo. – Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la colorerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è d’essere un vero innamorato, perché l’Amore è il più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all’incenso è il suo alito.
Lo Studente alzò lo sguardo dall’erba e si pose ad ascoltare, ma non gli era possibile capire ciò che l’Usignolo gli diceva, dopo che capiva solo parole che sono scritte sui libri. Ma la quercia capi, e si addolorò, poiché voleva bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami.
- Cantami un’ultima canzone – gli bisbigliò. – Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andata.
Così l’Usignolo cantò per la Quercia, e la voce era come l’acqua che si sparge gorgogliante da un’anfora d’argento. Finita che fu la canzone, lo Studente s’alzò, e trasse di tasca un taccuino e una matita.
- Questa creatura ha stile. Disse a se stesso – è un fatto che non si può contestare, ma avrà inoltre sentimenti? Ho timore di no. In verità, è come la maggior parte degli artisti, tutta forma, nessuna lealtà. Non si offrirebbe in sacrificio per gli altri. Pensa solamente alla musica, e tutti sanno che l’arte è egoista. Bisogna in ogni modo ammettere che ha note incantevoli nella sua voce. Peccato che non significano nulla, e non abbiamo alcun’utilità pratica. E andò in camera, e si stese sul suo piccolo letto, e cominciò nuovamente a pensare alla sua amata, e dopo un po’ di tempo, s’addormentò. E quando la Luna spiccò nei cieli l’Usignolo volò dal Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si spingeva sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue vitale fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più alto del Rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento, come la nebbia sospesa sul fiume, pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell’alba. Come l’ombra di una rosa in uno specchio rosa che fioriva sul ramo più alto del Rosaio. Ma il Rosaio urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo – urlava il Rosario – o il Giorno spunterà prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e più forte si fece il suo canto, esseri che cantava il venire al mondo della passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue striatura rosea si sparse nei petali del fiore, simile al rossore che si spande sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non era giunta al cuore dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché solo il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il cuore di una rosa. E il Rosario urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo, o il giorno spunterà prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò il cuore, e un violento spasimo di dolore lo trafisse. Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo d’Oriente. Vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce dell’Usignolo si fece più debole, e le sue piccole ali iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo ascoltò, e dimenticò l’alba, ed esitò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del mattino. L’eco e il ripetè nel suo antro color porpora sui colli, e risvegliò dai loro sogni i pastori dormienti. Ondeggiò fra i giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al mare.
- Guarda! Guarda! – gridò il Rosario – la rosa è perfetta, ora!
Ma l’Usignolo non rispose, perché stava steso morto nell’erba alta, con la spina nel cuore. A mezzogiorno lo Studente aprì la finestra e guardo fuori.
- Che sbalorditivo colpo di fortuna! – disse con enfasi. – Una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella che senza dubbio avrà un lungo nome latino – si sporse, e la colse.
Poi si mise il cappello, e corse a casa del Professore con la rosa in mano. La figlia del Professore sedeva in veranda, aggomitolando della seta azzurra su un arcolaio, e il suo cagnolino le stava disteso ai piedi.
- Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato una rosa rossa – urlò lo Studente – ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre danzeremo insieme vi dichiarerà quando vi amo.
Ma la ragazza corrugò la fronte.
- Temo che non sia adattata al mio vestito – rispose – e poi, il nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori.
- In fede mia, siete davvero un’ingrata! – disse lo Studente in un impeto d’ira; e gettò la rosa giù nella strada, ed essa cadde in un rivoletto, e la ruota di un carro vi passò sopra.
- Ingrata io? – ripetè la ragazza. – Ebbene, voi sapete che cosa siete? Un grande screanzato, in fondo, né più né meno che un semplice Studente. E non credo neppure che abbiate delle fibbie d’argento sulle scarpe come il nipote del Ciambellano.
E s’alzò dalla sedia ed entrò in casa.
- Che balordaggine è l’Amore! – disse lo Studente andandosene. – Non è utile neppure la metà della Logica, perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è per niente pratico, e siccome nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica.
Così si chiuse dentro nella sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.



Oscar Wilde


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view post Posted on 4/8/2013, 13:10
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L'ELFO DELLA ROSA

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In mezzo al giardino c'è un roseto ricoperto di bellissime rose.
Nella più bella vive un elfo quasi invisibile à l'occhio umano, anche se non possiamo vederlo lui ha un corpo ben proporzionato come un qualsiasi bambino, ha delle grandi ali che scendono dalle spalle fino a terra. Dietro ogni petalo della rosa si trova una sua stanza.
Oh , come profumavano quelle stanze e quanto luminose e trasparenti le sue pareti che erano i petali della rosa.
Durante tutto il giorno il piccolo elfo volava da un fiore a un altro o danzava con le farfalle nel caldo tepore del sole e seguendo i sentieri delle venature delle foglie. Era un viaggio lungo e quel giorno l'elfo l'aveva cominciato in ritardo e così prima di finire il sole era tramontato.
Si era fatto molto freddo e i fiori si piegavano sotto il vento. Bisognava tornare di corsa alla sua rosa-casetta. Giunto sul posto ebbe la sorpresa di trovare il fiore chiuso per la notte. Neanche una rosa era rimasta aperta e non poteva entrare da nessuna parte. Il piccolo elfo era molto spaventato: non aveva mai passato la notte fuori casa.
All'interno del fiore c'era sempre un bel calduccio ...rimanere fuori significava certamente morire. Improvvisamente si ricordò di un albero cresciuto all'altra estremità del giardino, che aveva degli strani fiori a forma di trombetta...forse poteva entrare in uno di quei fiori e trovare riparo fino al sorgere del sole. Prese il volo in direzione dell'albero ma si fermò di colpo: c'erano già due persone all'interno.
Tranquillo: erano un ragazzo e una ragazza bellissimi che gli fecero posto e lo riscaldarono tenendolo stretto a loro. Si amarono come il miglior bambino ama il padre e la madre.
"Purtroppo bisogna partire" disse il ragazzo alla ragazza" tuo fratello non mi vuole e mi manda in terre lontane fra mari e monti. Addio dolce sposa...sarete mia per sempre, malgrado la lontananza.”
La ragazza piangente raccolse una rosa la baciò e la diede al ragazzo.
Col calore del bacio i petali si aprirono e il piccolo elfo riuscì ad entrare...Sentiva dall'esterno: “Addio, Addio...”
Poi il ragazzo mise la rosa sul suo cuore e l'elfo non riuscì a dormire a causa dei battiti .
Il ragazzo camminava nel bosco buio e spesso prendeva la rosa e la baciava con ardore. Ogni volta l'elfo rischiava di essere schiacciato. I petali sentendo il calore del ragazzo rimanevano aperti.

Nel buio del bosco si nascondeva un'altro giovane: Il fratello malvagio della ragazza che approfittando di uno dei momenti di disattenzione del ragazzo mentre questo baciava la rosa lo pugnalò a morte. Poi taglio la testa del giovane e la seppellì insieme col corpo sotto le radici degli alberi.
"Adesso è morto e dimenticato...non tornerà mai più. Tutti sapevano che doveva partire per un lungo viaggio pericolosissimo durante il quale è facile perdere la vita...Non tornerà più e mia sorella non mi chiederà più che fine abbia fatto."
Con un calcio sparpagliò il fogliame sopra la tomba del ragazzo.
Ma il malvagio fratello non era solo...il piccolo elfo era caduto in mezzo alle foglie tutto tremante di paura e rabbia.
L'elfo riuscì ad aggrapparsi ad una foglia che rimase attaccata al capello dell'assassino.
La mattina presto il fratello giunse a casa, entrò nella camera della sorella che dormiva profondamente sognando il suo fidanzato partito per terre lontane. Egli la guardò con cattiveria poi si sdraiò per dormire.
Non vide il piccolo elfo che dalla foglia sul capello era sceso sul letto della ragazza. Entrato nell'orecchio della ragazza le raccontò, come in uno sogno, tutto quel che era successo indicando il posto dove era sepolto il ragazzo, poi disse:
"Questo non è un sogno e come prova quando ti sveglierai troverai sulla coperta una foglia".
Al risveglio la ragazza trovò la foglia...Oh, quante lacrime amare versò la povera ragazza! Ella non ebbe il coraggio di dire a nessuno quel che era venuta a sapere.

Di fronte alla finestra della ragazza c'era un roseto che si copriva di rose nuove ogni mese. Nascosto fra le rose l'elfo osservava la ragazza. Il fratello entrò varie volte nella stanza con un sorriso beffardo sul viso ,ma la ragazza non parlò.
Quando venne il buio la ragazza uscì da casa e andò a cercare il tiglio sotto il quale suo fratello aveva nascosto il corpo del suo ragazzo.
Trovato il corpo si sciolse in un profondo pianto. Pregava Dio di darle la morte. Avrebbe voluto portare il corpo in casa ma sapeva che non era possibile.
Allora prese la testa pallida con gli occhi chiusi baciò le labbra e tolse con mani tremanti dai bellissimi capelli il terriccio e il fogliame . Poi seppellì di nuovo il corpo e sparse meglio le foglie sulla tomba. Portò via la testa e un rametto di tiglio.
Arrivata nella sua stanza, prese un grande vaso di fiori, ci mise la testa,la ricoprì di terra e sopra piantò il rametto di tiglio.
L'elfo non riusciva più a guardare il triste spettacolo e dopo aver sussurrato “Addio...Addio” volò fuori dalla casa.
Ma la sua rosa era appassita.
"Come passano in fretta le cose buone e belle" egli pensò e dovette cercare un altro fiore con i petali caldi e di colore rosa.

Tutte le mattine volava alla finestra della ragazza che trovava sempre piangente sopra il vaso di fiori. Mentre la ragazza diventava sempre più pallida, il tiglio cresceva e si copriva di fiori.
Il fratello non capiva il legame nascosto fra la ragazza e il vaso e la sgridava dicendo che era una stupida...
Quando arrivava l'elfo la trovava addormentata vicino ai fiori del suo vaso, entrava nel suo orecchio e le sussurrava parole dolci che ricordavano quella notte d'amore sotto l'albero del giardino.
La ragazza faceva sogni sempre più dolci e lentamente, dolcemente passò dalla vita alla morte. Ormai era nell'aldilà con il suo amato.
Tutti i fiori aprirono le corolle rilasciando un profumo inebriante. Questo è il loro modo di salutare gli esseri che muoiono.

Dopo la morte della ragazza il fratello mise il vaso di fiori nella sua stanza, vicino al suo letto.
La pianta era bellissima e faceva un profumo inebriante.
Intanto il piccolo elfo aveva ripreso a volare da un fiore ad un'altro ed a tutte le anime che incontrava nei fiori e nelle piante raccontava la triste storia dei due ragazzi.
"La conosciamo...si la conosciamo, le nostre radici l'hanno sentita dalle labbra del ragazzo".
L'elfo non capì la loro indifferenza e volò a raccontare la storia alle api.
Le api andarono dalla loro regina.
Sentita la storia la regina dette l'ordine alle sue api di ammazzare l'assassino il giorno dopo.
La prima notte dopo la morte della ragazza mentre il malvagio fratello si era addormentato sotto l'alberello fiorito, da ogni fiore uscirono minuscoli spiriti quasi invisibili armati di lance con la punta avvelenata.
Nelle orecchie gli dissero delle cose che gli fecero nascere degli incubi, poi gli punsero la lingua con le spade avvelenate.
"Abbiamo vendicato il ragazzo morto" dissero e poi tornarono all'interno dei fiori.
Quando il mattino furono aperte le finestre l'elfo insieme alla regina con tutte le sue api si precipitarono all'interno ma trovarono l'uomo già morto.
La gente diceva:"E il profumo dei fiori che gli ha dato la morte."
Allora l'elfo capì e spiegò alla regina come i fiori si erano vendicati. Le api continuavano a volare intorno all'alberello. Quando un uomo volle spostare il vaso un'ape lo punse, il vaso cadde e si ruppe, tutti videro il cranio all'interno.
Allora la gente capì che il morto era l'assassino del ragazzo.
Le api volando in giro raccontarono della vendetta dei fiori e del piccolo elfo.

Dietro il più piccolo fiore ci può essere un essere pronto a raddrizzare i torti subiti.
elfo



Traduzione e illustrazione di Avian


Con la collaborazione del Forum Messinaweb un grazie a Fleur, Stella, Aurora, Sandy e Armando Bettozzi

di Hans Christian Andersen


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view post Posted on 17/8/2013, 13:09
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C'era una volta una ragazza che era assai pigra e non voleva filare e la madre poteva dirle quello che voleva, ma non riusciva a convincerla.
Alla fine la madre perse la pazienza e cominciò a picchiarla, che la ragazza cominciò a piangere forte.
Allora accadde che la Regina passasse proprio di là e udì il pianto, si fermò, entrò in casa della ragazza e chiese alla madre perché picchiasse sua figlia tanto che si sentivano gli urli fino fuori sulla strada.
La donna si vergognò del fatto di dover far sapere quanto sua figlia fosse pigra e disse:
"Non riesco a farla smettere di filare, vuole solo e soltanto filare e io sono povera e non riesco a procurarle la canapa".
Allora la Regina rispose: "La cosa che mi piace di più è filare e non sono felice se non sento il ronzio della ruota: lascia che tua figlia venga con me al castello, io ho canapa a sufficienza e può filare finché ne ha voglia".
La madre ne fu felicissima e la Regina si portò con se la figlia.
Appena giunte al castello la accompagnò in tre cameroni, che erano pieni zeppi della più bella canapa.
"Filami questa canapa" disse, "e quando avrai finito diverrai la sposa del mio figlio maggiore. Anche se sei povera, non me ne importa, la tua solerzia è già di per se una gran dote".
La fanciulla si spaventò molto, perché proprio non avrebbe saputo filare quella canapa nemmeno se avesse filato trecento anni dalla mattina alla sera.
Quando fu sola, cominciò a piangere e così rimase tre giorni senza muovere un dito.
Il terzo giorno la Regina venne e quando vide che non era stato filato un bel niente, molto si stupì, ma la fanciulla si scusò dicendo che il grande dispiacere della lontananza dalla casa di sua madre non le avevano permesso di iniziare.
La Regina si lasciò convincere, ma nell'andarsene disse: "Domani devi iniziare a lavorare".
Quando la fanciulla fu di nuovo sola non seppe più cosa fare e, nella disperazione, si avvicinò alla finestra.
Così vide arrivare tre donne, la prima aveva un piede piatto, la seconda il labbro inferiore tanto grosso che le pendeva sopra il mento, e la terza aveva un gran pollicione.
Se ne stettero ferme davanti alla finestra, guardarono dentro e chiesero alla fanciulla che cosa le mancasse.
Lei raccontò la sua pena, loro le offrirono aiuto e dissero:
le tre filatrici "Se ci inviterai a nozze e non ti vergognerai di noi e ci chiamerai come madrine e ci farai sedere al tuo tavolo, noi fileremo la tua canapa e anche in fretta".
"Volentierissimo", disse la ragazza, "entrate e iniziate subito il lavoro."
Così fece entrare le tre strane donne e fece loro spazio nella prima camera in modo che potessero cominciare a filare.
La prima prendeva il filo e faceva muovere la ruota, la seconda lo inumidiva, la terza lo torceva e lo batteva col pollice sul tavolo e ogni volta che batteva cadeva a terra una matassina filata in modo meraviglioso.
Davanti alla regina nascose le tre filatrici e mostrò, ogni volta che venne a controllare, le quantità di canapa filata e le lodi di lei erano senza fine.
Quando la prima stanza fu vuota, entrò nella seconda e poi nella terza e anche questa fu presto terminata.
Allora le tre donne presero commiato e dissero alla fanciulla:
"Non scordarti quello che hai promesso e ne verrà la tua fortuna"
Quando la fanciulla mostrò alla Regina le stanze vuote il grande mucchio di canapa filata, si prepararono le nozze e lo sposo si rallegrò all'idea di avere una moglie così diligente e saggia e molto la lodò.
"Io ho tre madrine", disse la fanciulla, "e poiché mi hanno fatto molto del bene, non le vorrei dimenticare nel momento della mia gioia. Permettimi di invitarle alle nozze e di farle sedere con noi".
La Regina e lo sposo concessero il permesso.
Quando iniziò la festa entrarono le tre donne con costumi meravigliosi e la sposa disse:
"Benvenute care madrine".
"Ah", disse lo sposo, "come hai fatto la loro conoscenza?"
Poi si avvicinò a quella col largo piede piatto e le chiese:
"Come mai avete un piede così largo?"
"A forza di pestare sull'arcolaio" disse "a forza di pestare."
Poi lo sposo andò alla seconda e chiese:
"Perché avete un labbro che pende?"
"A forza di inumidire il filo, a forza di inumidire", disse la seconda.
Poi chiese alla terza:
"Perché avete un pollice così grande?"
"A forza di torcere il filo", rispose questa "a forza di torcere il filo."
Allora il Principe si spaventò e disse:
"D'ora in poi la mia bella sposa non dovrà toccare una rocca per filare".
E fu così che questa si liberò dell'odiato filare.
castello

Co2niHu


di Jachob e Wilhelm Grimm


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